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Terremoto del 1980 e pandemia, il vescovo Bellandi porta il messaggio della Chiesa: “Oggi come allora la speranza darà fiducia e rinascita” Attualità Primo piano 

Terremoto del 1980 e pandemia, il vescovo Bellandi porta il messaggio della Chiesa: “Oggi come allora la speranza darà fiducia e rinascita”

 

L’arcivescovo della Diocesi di Salerno/Campagna/Acerno monsignor Bellandi ricorda a 40 anni di distanza il terremoto del 23 novembre 1980 che sconvolse, con migliaia di morti e feriti, la Campania e in particolar modo le zone dell’Avellinese e del Salernitano. Il numero uno della Chiesa salernitana affida il suo pensiero in una lettera dove fa riferimento anche all’emergenza sanitaria che il mondo intero sta attraversando.

“In questi mesi – dal giorno della mia nomina e ingresso in Diocesi – ho avuto modo, nonostante le difficoltà acuite dall’emergenza pandemica, di conoscere eventi e persone che hanno tessuto la storia di questa Chiesa salernitana, che ha alle sue spalle una lunga tradizione che poggia il suo fondamento nella prima fase di evangelizzazione del cristianesimo.

Un intreccio di comunità, un crogiuolo di santità, mille volti di espressioni della fede e della religiosità: in tutto ciò ravviso una forte umanità e una fede autentica, vera, viva. Sento quindi non soltanto opportuno, ma necessario, farmi presente alla comunità tutta – in primis a quella ecclesiale, ma allargando poi lo sguardo a tutte le donne e gli uomini che popolano questo territorio –  in occasione del 40° anniversario del sisma avvenuto il 23 novembre 1980. Quell’evento, fino a un anno fa, era per me soltanto cronaca storica, oggi lo sento parte della mia persona ed elemento imprescindibile del mio ministero pastorale in mezzo a voi.

Il mio ricordo e le mie preghiere vanno subito alle centinaia di vittime di quel  tragico evento e ai loro familiari. Le 19.35 di Domenica 23 novembre: novanta secondi interminabili, che hanno segnato profondamente la vita concreta delle persone, i ritmi sociali delle comunità legati ad un mondo contadino e semplice, il vissuto della fede con un forte senso della tradizione e della pietà popolare. Sui volti, soprattutto delle persone più anziane, che ricordano dal vivo quel tragico evento e che i video trasmessi nei giorni seguenti hanno ripreso, accanto ai segni dell’età si possono leggere  – tra le pieghe del loro volto – la paura, lo smarrimento, l’incertezza sul futuro.

Sotto le macerie del sisma che ha colpito – nei territori dell’Alta valle del Sele, allora parte della Diocesi di Campagna e attualmente appartenenti alla nostra Arcidiocesi – particolarmente paesi come Laviano, Castelnuovo di Conza, Santomenna ed altri comuni viciniori, è un intero mondo di valori che si è fermato ed è crollato: un capitolo nuovo della storia si è aperto tra il sangue e le lacrime di quella gente. Tuttavia, nella logica della fede, anche il dramma stesso del dolore e della morte si illumina di senso e di luce nuova, così che anche il momento più difficile e tragico può diventare un seme di rinascita e di ripresa. La presenza dei volontari (tra cui tanti sacerdoti) che si mobilitarono da tutta Italia per prestare soccorso e consolazione con umanità e preghiera in quei giorni e mesi, il sorgere del primo embrione della Protezione Civile e della Caritas diocesana, la vicinanza di tanti parroci alla gente in difficoltà e l’impegno di singoli e famiglie nel tessere nuovamente un tessuto umano e sociale altrimenti lacerato dalla paura e dalla perdita di vite umane e di beni materiali, sono stati i segni umani di una resurrezione già operante nella fase immediata dell’emergenza.

Come tutti i grandi eventi storici, anche il terremoto del 1980 ha tuttavia portato con sé luci e ombre, esempi commoventi di generosità accanto ad azioni miranti esclusivamente al proprio interesse. Ma non è questa analisi a dare il senso di questo mio messaggio. Certamente, oltre il ricordo e la preghiera per le vittime e i loro familiari, occorre inoltre domandarsi: come oggi ci rendiamo prossimi a chi vive in situazione di difficoltà materiale e spirituale? Quali azioni la nostra comunità – civile ed ecclesiale – è capace di esprimere nei confronti di altre forme di povertà, magari acuite dal dramma attuale dell’epidemia da Coronavirus? La ricostruzione ha interessato sicuramente le nostre chiese e strutture religiose, ma la nostra adesione al Vangelo di Cristo si è poi tramutata in esigenza di un rinnovamento del nostro cuore e della nostra espressione della fede alla luce di quanto dice Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 34)?

Questo messaggio vuole essere prima di tutto, umilmente, un segno della presenza della Chiesa nella storia e nella vita concreta della gente: non una Chiesa, quindi, che si arrocca e si difende, ma una comunità – quella rinnovata e abitata dalla grazia di Dio – che desidera coinvolgersi pienamente con i drammi dei propri fratelli e sorelle, nella storia di ieri e di oggi. Un messaggio che non vuole semplicemente rinnovare un ricordo sbiadito dal tempo, ma una memoria che interpella tutti noi, ad ogni livello, a fare della speranza un motore di rinascita e di impegno civile, oltre che ecclesiale. Un messaggio che vuole infine gettare un seme di fiducia su questo tempo segnato da un nuovo dramma umanitario, sul quale siamo chiamati e desideriamo proiettare la luce di Cristo – Agnello immolato, ma vittorioso – sul dolore e sulla morte”.

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