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Mons. Moretti: «Le dimissioni non un giochino ma una scelta ponderata» Cronaca Primo piano 

Mons. Moretti: «Le dimissioni non un giochino ma una scelta ponderata»

L’arcivescovo emerito Luigi Moretti ci accoglie, in una mattina d’inizio agosto, nella sua nuova dimora, due stanze ricavate nella canonica di San Giuseppe Lavoratore, a via Bottiglieri. Due poltroncine, qualche quadro alle pareti, il sole che illumina il salottino. Tutto è molto essenziale. Poco prima ha risposto ad una nostra email firmandosi “don Luigi” e lo stesso don Natale Scarpitta, il parroco, lo chiama così. Don Luigi, da quindici giorni, è il nuovo vicario in questa comunità da oltre 13mila abitanti dove il lavoro non manca mai tanto che, nella segreteria, per quanto sia piena estate, c’è il solito andirivieni di persone. Il 6 luglio scorso, i problemi di salute gli avevano impedito di concelebrare in duomo la messa d’ingresso del suo successore, l’arcivescovo Andrea Bellandi. E, nelle chiese diocesane, durante le celebrazioni, molti parroci continuano a chiedere preghiere per l’arcivescovo Luigi.

Eccellenza, come sta?
«Beh, mi sto curando e la necessità delle cure si è inserita proprio nel momento di passaggio. Ma questo ha confermato la bontà della mia scelta precedente. Le dimissioni non sono state un giochino, ma una scelta necessaria e ponderata su cui ha influito anche l’esempio di Papa Benedetto XVI. Le sue dimissioni, nel 2013, sono state l’atto di magistero più alto dopo il Concilio Vaticano II. L’insegnamento è quello di valorizzare il servizio al di là delle persone. E ricordo anche le parole del cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, che in un incontro degli esercizi spirituali presieduti negli anni in cui ero seminarista, dichiarò che non avrebbe atteso nemmeno i 75 anni per dimettersi volendo evitare l’incertezza del periodo di transizione».
Com’è stato accolto nella parrocchia di San Giuseppe? Secondo il suo stile, non ci sono state cerimonie ufficiali. È entrato in silenzio.
«No, no, nessuna celebrazione. Sono qui da quindici giorni e mi trovo già molto bene. A San Giuseppe vive una comunità di sacerdoti, seminaristi, diaconi, giovani che mi farà tornare ai tempi di Roma, dove ho sempre svolto attività in parrocchie in cui vivevano insieme cinque o sei preti. Lo considero un modo di vita sacerdotale. Fino a sedici anni fa, nella comunità di San Giovanni Battista de’ Rossi (nel quartiere romano di Appio-Latino, ndr) ho svolto il ruolo di collaboratore, pur essendo già vescovo ed ausiliare di Roma. Sono stato responsabile della pastorale familiare diocesana ed è chiaro che il mio impegno si è concentrato, in particolare, sulla cura delle famiglie e dei giovani. Anche qui a San Giuseppe, nei limiti della salute, voglio dare il mio contributo proprio nel dialogo e nell’accompagnamento spirituale delle persone. Di certo non avrò la depressione del non essere più vescovo ordinario e qui ci sono tutti i presupposti per vivere bene la mia vita sacerdotale». (fonte: ilmattino.it)

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