Accadde oggi: il 26 aprile del 1986 il disastro nucleare di Chernobyl che paralizzò l’Europa di paura
L’industria atomica civile era il fiore all’occhiello della propaganda Urss, dipinta come l’alternativa all’inquinante sfruttamento dei giacimenti fossili, spacciata come l’antidoto falce e martello al degrado ambientale. Una linea che Chernobyl non scalfirà. Basta leggere il documento sul “post-accident” presentato il 25 agosto del 1986, alla AIEA, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica che ha sede a Vienna, intitolato (Part 1 – General material), di cui sono in possesso grazie a uno dei 23 esperti della Commissione Statale sovietica per lo sfruttamento dell’energia atomica che l’avevano compilato. Pagina 3, secondo capoverso: “L’abbandono delle risorse derivate dall’energia nucleare richiederebbe un significativo aumento dell’estrazione e del consumo dei carburanti organici. Questo aumenterebbe inevitabilmente il rischio di desease per l’umanità, aumenterebbe la distruzione foreste e il danneggiamento delle acque come conseguenza del costante rilascio di sostanze chimiche nocive nella biosfera”.
Fu soltanto dopo qualche giorno che i nostri incubi atomici si concretizzarono, come per la crisi di Cuba. La paura si insinuò nelle nostre menti, lo choc emotivo divenne razione quotidiana quando la Protezione Civile emise una sorta di decalogo quale “ulteriore precauzione” consigliata per far fronte alla nube radioattiva che ormai aveva raggiunto il Belpaese: non bere acqua piovana, né latte fresco ma dare ai bimbi solo latte in polvere a lunga conservazione confezionato prima del 2 maggio; lavare accuratamente la frutta, non mangiare verdura fresca a foglia. Agli allevatori fu ingiunto di nutrire il bestiame con foraggio secco. Il giorno dopo il ministero della Sanità proibì la vendita di verdure fresche a foglie larghe per quindici giorni e vietò il latte fresco ai bambini di meno dieci anni e alle donne incinte. Fu bloccata l’importazione dei prodotti di origine animale e vegetale dall’Ucraina, dal resto dell’Urss bisognava che ci fosse un’attestazione governativa di merce prodotta e confezionata prima del 20 aprile 1986. Ma questo era niente. L’istituto di fisica sanitaria ci disse di non arieggiare troppo gli ambienti, di evitare l’uso dei condizionatori, di non portare a spasso i bambini per troppo tempo, anzi, che sarebbe stato meglio tenerli al coperto, e lo stesso valeva per le donne incinte. I motivi di preoccupazione aumentavano col passare del tempo. L’ombra maligna dei tumori e di chissà quali misteriosi cancri si allungava alle nostre spalle. Si era frantumato il sogno dell’energia “pulita”, “sicura”, “eterna”. Era crollata l’utopia di un mondo scientificamente controllabile. La punizione di Prometeo, la nostra sconcertante fragilità. Guardammo con sospetto cielo, acqua, terra. Cominciammo a chiederci se quello che respiravamo, quello che mangiavamo, quello che coltivavamo era stato contaminato, avvelenato, perduto. A Milano, qualcosa di simile l’avevamo già provato, dieci anni prima, per Seveso. L’emergenza fu più severa in Svezia, Finlandia, Norvegia e Danimarca (scrisse il Fatto in un articolo del 2016). La nube radioattiva partita dall’Ucraina continuava a vagare sopra il nord Europa, puntava verso l’Austria, i Balcani, l’Italia. La centrale nucleare di Chernobyl continuava a bruciare scaricando nell’atmosfera particelle micidiali, i russi non riuscivano a debellare l’incendio nucleare. Solo tre giorni dopo si arresero: chiesero aiuto ufficialmente a Stoccolma e Bonn (non era ancora crollato il Muro di Berlino). In realtà, Mosca voleva l’intervento dei tecnici della Brown-Boveri, società svizzera con 159 filiali in tutto il mondo, e grosse partecipazioni appunto in Svezia e Germania occidentale. La multinazionale accettò. Era l’indiretta ammissione che l’incidente aveva compromesso irrimediabilmente il cuore del reattore. Diranno, i 23 esperti nominati dal governo sovietico, per cercare di scaricare altrove ogni responsabilità tecnica: “L’incidente è il risultato di una combinazione di eventi estremamente improbabili. L’Urss ne sta traendo le appropriate conclusioni”.
Travolti da una sorta di disorientamento collettivo, ci trovammo smarriti nei labirinti dei dubbi e delle certezze (presunte), incerti se schierarci con coloro che sminuivano rischi e pericoli riponendo fiducia massima nel “padiglione” del Progresso Tecnico o con coloro, invece, che ipotizzavano scenari drammatici, da fine del mondo, immaginando un futuro da figli di niente. Di cosa successe per davvero, quella notte in cui fummo ignari, ce ne saremmo resi conto solo anni dopo. Ancora oggi, non sappiamo tutto. Una consapevolezza latente – come vivere e pensare nella società del rischio? – prese posto in un piccolo angolo del nostro animo: quando forse era già troppo tardi. O forse, non è mai troppo tardi: l’anno dopo, col referendum, bocciammo le centrali nucleari. Rimase, ma non è una consolazione, la data, quella Data, come fosse scolpita nella memoria della storia. Dell’umanità. Di ognuno di noi. Come un avvertimento perenne, per mettere a nudo le nostre imprudenze.
Scoprimmo che Chernobyl si trovava immersa nel verde delle grande foreste fra la Bielorussia e l’Ucraina dove scorre il fiume Pripjat, affluente del Dnepr. Che c’era stato un “super gau” (grosser anzunehmender unfail, il massimo incidente ipotizzabile): all’una 23 minuti e 40 secondi, ora locale. Che l’incidente era stato preceduto da problematiche tecniche: potevano essere tamponate, se soltanto si fosse rinunciato alla burocratica “scaletta” dei test operativi, programmati per la manutenzione pianificata ed effettuati su uno dei turbogeneratori. Subito dopo, all’una e 24 minuti, le due esplosioni squassarono l’edificio che lo conteneva. L’aria venne contaminata senza sosta. Soffiava un vento da est verso ovest, cioè verso l’Occidente. Fu l’apocalisse. E la Grande Bugia. Mosca tacque. Minimizzò. Inutilmente. Irresponsabilmente. Nelle scuole dell’Urss, per esempio, gli allievi erano istruiti ad affrontare le conseguenze di un attacco atomico o dell’esplosione di un reattore nucleare all’interno di una centrale: allo stesso modo. Quando i rilevatori occidentali segnalarono percentuali troppo elevate di radionuclidi sui loro territori, i russi dissero che non c’era pericolo: Vse pod kontrolem, tutto è sotto controllo, fu la famosa frase di Mikhail Gorbaciov, segretario generale del Pcus. Appena due mesi prima, al ventisettesimo congresso del partito comunista sovietico, aveva ufficialmente avviato la politica di cambiamento in nome della glasnost (trasparenza), della perestroijka (ricostruzione) e dell’uskorenie (accelerazione dello sviluppo economico). Chernobyl poteva compromettere i suoi piani. Umberto Veronesi, allora direttore dell’Istituto dei Tumori di Milano, mi disse in un’intervista che ci fu la “congiura del silenzio”. Non solo in Russia. Ma pure da noi. Si chiedeva perché non vennero diffusi tempestivamente i dati raccolti dalle 1500 stazioni di rilevamento radioattivo che coprono il territorio nazionale: “Dicono di non preoccuparsi e però suggeriscono di non bere latte, di stare attenti all’alimentazione. Ci pigliano per cretini?”. Sì, professore: continuano a farlo. E continuano a ripeterci: Vse pod kontrolem. Tutto è sotto controllo.