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Il 4 febbraio del 1789 Washington eletto primo presidente degli Stati Uniti d’America Attualità 

Il 4 febbraio del 1789 Washington eletto primo presidente degli Stati Uniti d’America

Accadde oggi: il 4 febbraio 1789 George Washington venne eletto all’unanimità pèrimo presidente degli Stati Uniti d’America.   Il mito di George Washington, mostro sacro della civiltà statunitense, è inviolabile. Comandante in capo dei ribelli durante la Guerra d’indipendenza delle 13 colonie britanniche dell’America del Nord contro la madrepatria inglese (1775-1783), riuscì a conseguire una popolarità sorprendente. Tanto che, a conflitto concluso, il timore che l’America potesse collassare sotto la sua guida in una dittatura militare divenne palpabile, soprattutto in Europa. Nato nel 1732 in una fattoria del Westmoreland, in Virginia (Stato che darà i natali a otto presidenti Usa), nipote di coloni inglesi e figlio di una famiglia di proprietari terrieri, George rimase orfano di padre all’età di 12 anni. Ereditati i poderi di famiglia, dopo aver lavorato come geometra in Pennsylvania, allacciò le giuste relazioni e divenne uno dei notabili più in vista della colonia. Verso i vent’anni decise di intraprendere la carriera militare, con l’obiettivo di espandere i propri possedimenti.  Combatté contro gli indiani e partecipò, come comandante delle truppe della Virginia, agli scontri anglofrancesi per il controllo dell’America Settentrionale che precedettero la guerra dei Sette anni. Il conflitto, concluso nel 1763 con la disfatta della Francia, impose i britannici come la maggiore potenza coloniale e marittima del mondo. Ma per il giovane Washington le cose non erano andate altrettanto bene: messo più volte con le spalle al muro e costretto alla resa nel 1754, chiese il congedo e rincasò.

Nel 1759, il matrimonio con Martha Dandridge cambiò la sua vita. Martha era la vedova di Daniel Parke Custis, figlio di una delle famiglie di coloni più ricche e influenti dell’impero. È probabile che Washington non amasse Martha e, come testimonia il suo carteggio con Sally Fairfax (di cui era invece innamorato), fu più volte sul punto di lasciarla: ma proprio Sally lo avrebbe convinto a desistere. Martha, il cui patrimonio era spropositato, sarebbe stata il trampolino di lancio di Washington, e Sally lo sapeva.  Amministrando i possedimenti della moglie, George si rese conto di quanto fossero gravose le limitazioni imposte dalla Gran Bretagna all’economia coloniale, inasprite ulteriormente dopo il conflitto con i francesi. E come tanti altri coloni cominciò a sentirsi sempre più americano e sempre meno cittadino di un Paese lontano, che peraltro non aveva mai visto. Forse nessuno, all’epoca, covava idee di indipendenza. Ma la rabbia iniziava a salire.

«Il debito nazionale britannico, a causa della Guerra dei sette anni era raddoppiato», ha scritto Maldwyn Jones, uno dei maggiori studiosi di storia americana. «Il costo della difesa dell’impero era salito dalle 70mila sterline del 1748 alle 350mila del 1763 e ora la maggiore preoccupazione di Grenville, primo ministro reale, era di ottenere soldi dalle colonie». Grenville negò uno stipendio al clero anglicano della Virginia, aumentò i dazi, pose divieti, osteggiò il contrabbando, rese praticamente impossibile il commercio dello zucchero. I risultati furono deleteri: Grenville non aveva calcolato che, battuti i francesi, i coloni non avrebbero più sentito l’esigenza di essere protetti dai britannici, e che le nuove idee libertarie europee avrebbero fatto scuola anche in America. Nel 1765 il Parlamento inglese promulgò lo Stamp act, una legge che introdusse nelle colonie un bollo di Stato su giornali, manifesti, fatture commerciali, documenti marittimi, licenze, atti matrimoniali e persino carte e dadi da gioco. Un espediente che colpì tutti indistintamente. Fiorirono organizzazioni segrete per coordinare l’opposizione: per qualche anno gli scontri, nonostante i rapporti fra una parte e l’altra dell’oceano si facessero sempre più tesi, furono tenuti sotto controllo. Ma la legge sul tè (1773) fece precipitare i già fragili equilibri. L’anno dopo George Washington, nominato membro del primo Congresso continentale (una sorta di associazione fra le colonie), prese posizione contro gli inglesi a favore dell’indipendenza. Il Congresso approvò un documento che attribuiva alle colonie il potere esclusivo di legiferare sui propri affari, sospendendo i rapporti commerciali con la madrepatria: era una dichiarazione di guerra.

  A Washington furono assegnati il comando dell’esercito e la missione, quasi impossibile, di sconfiggere le imponenti forze inglesi. «Washington fu scelto perché faceva parte di un’assemblea parrocchiale, elemento non secondario per l’epoca, e perché gli venivano riconosciute doti di fedeltà e onorabilità», spiega Marco Sioli, docente di Storia dell’America del Nord all’Università degli Studi di Milano. «In più, aveva sposato Martha Dandridge, un altro fattore da non trascurare». Le fasi iniziali della rivoluzione furono disastrose. Allo scoppio della guerra c’erano tre cittadini britannici per ogni americano; i coloni erano privi di una marina e di un governo, e sul territorio non c’erano istituzioni né infrastrutture. Ma si andò avanti lo stesso.

Le truppe coloniali riuscirono a raccogliere scarse quantità di polveri e poche migliaia di fucili: Washington si trovò a governare un gruppo di 20mila uomini disorganizzati, indisciplinati e a corto di armi. E, soprattutto, molto legati ai propri campi e poco propensi a sacrificare la vita. «George capì subito che avrebbe dovuto compiere un miracolo», continua Sioli. «All’epoca, in America, non c’erano né commercianti né costruttori di armi. La situazione era disperata, al punto che lo scienziato bostoniano Benjamin Franklin  suggerì di battersi, come gli indiani, con archi e frecce», dice l’esperto. Per Washington, stando alle sue parole, la guerra e l’impegno civile non erano “un privilegio, bensì un dovere”. Eppure sostenne che sarebbe stato disposto a rinunciare al proprio ruolo per ritirarsi in campagna. Difficile credergli. «Washington stava salendo la scala sociale americana, si stava arricchendo, aveva sposato Martha. Tutto questo non stava avvenendo per caso. Era esattamente ciò che lui voleva», dice Sioli. «Cominciò a presentarsi alle truppe in alta uniforme, che non smise quasi mai. E pretese la massima disciplina, stabilendo severe punizioni per i disertori». Il 17 giugno 1775 gli americani assediarono i britannici a Boston: i ribelli furono respinti, ma le perdite inglesi superarono le mille unità (più del doppio di quelle americane). Pochi mesi dopo la città capitolò. Successi e sconfitte si alternarono dal Canada alle zone più meridionali del continente. Tra i coloni, terrorizzati dalle minacce inglesi, si insinuò il desiderio di riavvicinarsi alla Corona. Ma quando re Giorgio IIIe il governo britannico svelarono le loro intenzioni, l’affetto per la madrepatria si affievolì: l’ordine di Londra era di annientare gli insorti e, per farlo, furono reclutati persino 30mila mercenari tedeschi.

RETE DI SPIONAGGIO. Scarse doti militari, ma un’ottima rete di spionaggio. Washington era un uomo intelligente, ma non era un generale: i suoi uomini dovettero subire sventure di ogni tipo. Fra perdite e diserzioni, l’esercito coloniale poteva contare in media su 5-10mila unità, e a volte su meno di 2mila. In campo aperto gli americani non avevano speranze. «In compenso, Washington aveva un’ottima rete di spionaggio», sostiene il saggista Andrea Frediani, esperto in storia militare. «E la sua conoscenza topografica, la dimestichezza con il territorio, i contatti che ebbe con gli indiani facevano di lui un esperto di guerriglia».

La sorte, a un certo punto, gli venne incontro: una serie di errori del generale inglese John Burgoyne decapitò le forze britanniche, che si arresero a Saratoga (New York) nel 1777. L’episodio spianò la strada a un’alleanza fra gli insorti e i francesi, ancora memori della batosta subita nella guerra dei Sette anni. Intanto, il 4 luglio 1776 Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e John Adams   che diventerà il secondo presidente Usa, avevano scritto la Dichiarazione d’indipendenza che avrebbe sancito la nascita degli Stati Uniti d’America. Washington non vi aveva preso parte: portare avanti un progetto politico di ampio respiro, nota Sioli, non era cosa per lui. La Dichiarazione, per Maldwyn Jones, non era tanto un disegno istituzionale, quanto «una giustificazione morale alla ribellione e una lunga enumerazione di ingiustizie contro i coloni, attribuite, un po’ a torto, a Giorgio III, accusato di aver cercato di stabilire una tirannia assoluta in America».

ALLO STREMO. La capitolazione di Saratoga convinse l’Europa che i britannici erano sul punto di cedere. Già da tempo Parigi riforniva segretamente i coloni di armi e polvere da sparo. Nel 1778 il governo francese dichiarò guerra all’Inghilterra. Nel 1779 toccò alla Spagna (alleata dei francesi), poi all’Olanda. Il movimento antibritannico, in verità, non era particolarmente ben disposto nei confronti degli Stati Uniti (li considerava una potenziale minaccia), ma colse la palla al balzo per colpire e indebolire la rivale d’Oltremanica, contribuendo indirettamente alla vittoria degli Usa. Una vittoria che sul campo di battaglia appariva ancora tutt’altro che scontata: gli ultimi mesi di guerra erano stati pieni di contrasti. Le truppe continentali erano ferite, affamate, depresse e Washington sapeva di non avere più margini per risollevarne il morale.

Il futuro primo presidente sarebbe stato anche oggetto di una cospirazione (fallita) da parte di uomini a lui vicini. Molti avevano cominciato a mettere in dubbio le sue doti militari (perse più battaglie di quante ne vinse) e Adams definì l’atteggiamento popolare nei suoi confronti una “superstiziosa venerazione” che avrebbe potuto condurre gli Usa a un totalitarismo in divisa. Come se non bastasse, la sua consuetudine di acquistare i diritti sulle terre con cui i soldati venivano retribuiti, e che spesso perdevano a carte o ai dadi, diede ai più l’impressione che Washington curasse i propri interessi meglio di quelli della nazione.

DITTATURA O ANARCHIA? Queste ombre sono frutto di una visione incompleta. «Washington», dice Sioli, «aveva il piglio del padre di famiglia e a causa della sua istruzione, per lo più informale, si esprimeva spesso per aforismi che contenevano principi morali o di comportamento. Per questo piaceva». E se un esercito arrivò fino alla fine del conflitto si dovette alla sua capacità di fronteggiare le defezioni: alcuni si vendettero agli inglesi, molti ritennero di potersi dimettere. Persino un patriota come il futuro presidente James Monroe lasciò il campo per studiare legge. «Più che verso una dittatura, il rischio era che si scivolasse verso l’anarchia», prosegue lo storico.

In aiuto agli insorti giunsero navi corsare, risorse e mezzi inviati da mecenati e mercanti europei. Ma determinante fu l’arrivo dei francesi. Nel 1781, l’esercito di Washington e quello francese diedero scacco matto al generale inglese Charles Cornwallis, che il 19 ottobre depose le armi. «Cornwallis lasciò che a presentare la spada a Washington fosse un suo subalterno», dice Sioli. Un segno di disprezzo verso la nuova autorità che diceva più di mille parole. In quello stesso anno, per dissolvere i timori di una dittatura, Washington smise la divisa e tornò ai suoi amati campi: “Un esercito”, disse, “è chiamato a servire un Paese, non a governarlo”. Fu eletto presidente nel 1789 e riconfermato nel 1792. Nel 1797 rifiutò il terzo mandato e si congedò dalla vita pubblica, ammonendo di evitare alleanze con l’Europa, principio che guidò la politica estera americana per decenni. Washington morì a Mount Vernon, nella sua Virginia, il 14 dicembre 1799.

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