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Il 13 ottobre di 206 anni fa a Pizzo Calabro la fine del re di Napoli Gioacchino Murat Attualità 

Il 13 ottobre di 206 anni fa a Pizzo Calabro la fine del re di Napoli Gioacchino Murat

Accadde oggi: a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815, 206 anni fa, fu fucilato Gioacchino Murat, re di Napoli.

Nasce povero e, grazie alle sue capacità, diventa Re di Napoli. Napoleone stesso gli concede il prestigioso titolo. E’ un coraggioso combattente, un uomo d’azione, queste sue doti gli valgono l’ascesa al potere. Una volta diventato Re di Napoli volle fare quel che riteneva giusto fare nell’interesse del suo regno, senza interferenze. Questa sua linea di pensiero lo porta in contrasto con Napoleone, che lo ritiene un infedele. Per questo Gioacchino Murat subisce la cattura e la condanna a morte. Le drammatiche fasi della cattura di Murat e della sua immediata esecuzione, qui narrate, sono ormai passate alla storia. Nel momento che accaddero furono considerate un monito per chi osasse contrastare l’autorità imperiale della Francia.

Ecco gli ultimi giorni di Gioacchino Murat, la fuga, la cattura, e la condanna a morte
Nonostante avesse solo 48 anni ben poco restava su quel volto pallido e sciupato dell’antica bellezza che, unita ai modi da gentiluomo ed all’uniforme da alto ufficiale, aveva fatto capitolare tante signore, aristocratiche e non, fino a poco tempo prima.

Così, quando sbarcò sulla spiaggia della Marina di Pizzo Calabro nella mattinata dell’8 ottobre del 1815 (una domenica) Gioacchino Murat, fino al maggio precedente Re di Napoli, per sperare di essere riconosciuto dai popolani che si stavano recando a Messa dovette gridare loro: “Sono il vostro Re Gioacchino. Mi riconoscete?”

Era partito pochi giorni prima dalla Corsica, dove si era rifugiato dopo una lunga fuga in cui era sempre stato inseguito dalla polizia borbonica, che lo braccava per ordine di Re Ferdinando IV, da poco restaurato su quel trono che aveva dovuto abbandonare sette anni prima a beneficio proprio del Murat, quando l’onnipotente cognato Napoleone Bonaparte lo aveva nominato Re di Napoli. La rovinosa sconfitta di quel che restava del suo esercito nella battaglia di Tolentino del 2 maggio precedente da parte degli Austriaci gli aveva però fatto perdere le ultime speranze di conservare il trono, inducendolo a fuggire. Né per lui la situazione era migliore nella natia Francia dove, dopo la disfatta di Waterloo, il suo imperiale cognato doveva ormai pensare a salvare se stesso.

Da qui il rifugio di Gioacchino nella più ospitale Corsica, patria dei Bonaparte, diventata però ben presto insicura anch’essa per un personaggio tanto ingombrante. L’ex-sovrano decise così di chiedere ospitalità agli Austriaci, presso i quali si erano già rifugiati la moglie Carolina ed i figli, imbarcandosi con destinazione Trieste su una piccola nave che però, per procurarsi viveri ed acqua, avrebbe dovuto sostare presso un porto del suo vecchio regno, col pericolo di venire intercettato da forze ostili. Quasi sicuramente perché tradito, si convinse a sostare a Pizzo, credendo forse di potervi trovare dei partigiani disposti a battersi per lui, senza però sapere che Ferdinando, che lo faceva spiare, era al corrente di tutto. Grande fu dunque il suo sconforto nel constatare che la sua apparizione, lungi dal riscaldare gli animi, aveva lasciato indifferente la popolazione, generando anzi l’ostilità di alcuni. Subito allertato, il Capitano Trentacapilli, noto filo-borbonico ed anti-murattiano convinto perché i suoi fratelli erano stati impiccati come briganti proprio su ordine di chi ora gli si trovava di fronte, si gettò al suo inseguimento sulla strada di Monteleone, dove si stava recando alla ricerca di cavalli. Fatto prigioniero insieme al manipolo di fedelissimi che lo accompagnava, Murat fu rinchiuso nel Castello Aragonese di Pizzo, dove un tribunale militare presieduto dal Generale Nunziante lo giudicò colpevole di “attività rivoluzionaria” condannandolo alla fucilazione immediata, tanto che, come da ordine di Ferdinando, gli fu lasciata solo mezz’ora dopo la sentenza per ricevere i conforti religiosi prima dell’esecuzione. Così, alle 21,00 del 13 ottobre, dopo aver fatto testamento e scritto un’ultima struggente lettera d’addio a moglie e figli, ordinò egli stesso al plotone che gli stava davanti di sparare, chiedendo soltanto che gli fosse risparmiato il viso. Giustamente qualcuno scrisse di lui: “Seppe vincere, seppe regnare, seppe morire”

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