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Accadde oggi: il 7 novembre del 1917 la rivoluzione in Russia con la presa del potere di Lenin Attualità 

Accadde oggi: il 7 novembre del 1917 la rivoluzione in Russia con la presa del potere di Lenin

Accadde oggi: era il 7 novembre del 1917 (il 25 ottobre secondo il calendario giuliano) un colpo di cannone (a salve) diede simbolicamente il via alla Rivoluzione russa con la presa del potere dei bolscevichi.  Un evento per decenni idealizzato dalla propaganda sovietica.

In realtà il 7 novembre del 1917 (25 ottobre secondo il calendario giuliano in vigore in Russia all’epoca) ci fu un colpo di Stato organizzato e attuato da una sparuta minoranza di attivisti bolscevichi. Niente di eroico e di grandioso come raccontò poi Eisenstein; e niente di drammatico e sanguinoso, come aveva previsto Lenin nei suoi piani (nella foto sotto, sulla piazza Rossa a Mosca). Da settimane, anzi da mesi, il leader bolscevico era ossessionato dall’idea di una insurrezione armata per conquistare il potere in Russia. Temeva che il momento giusto sarebbe passato e che lui avrebbe perso l’occasione propizia. La rivoluzione di febbraio aveva portato all’abdicazione dello zar e alla presa del potere da parte del governo provvisorio. Un mutamento di regime in senso «borghese» e «democratico» che certamente non andava bene a Vladimir Ilyich Lenin, esponente della sinistra rivoluzionaria, che si trovava in esilio in Svizzera per sfuggire alla polizia zarista. Mentre gli eventi precipitavano nella capitale Pietrogrado — che lo zar aveva ribattezzato all’inizio della Grande Guerra per eliminare la desinenza di origine tedesca presente in Pietroburgo —, Lenin fremeva lontano dall’azione. Fu solo grazie all’aiuto interessato del Kaiser che il capo dei bolscevichi riuscì a tornare in Russia su un treno sigillati che attraversò il Paese nemico. Ma per tutta la primavera e l’estate, Lenin dovette seguire gli eventi rimanendo nascosto perché anche il governo provvisorio ce l’aveva con lui. Anzi, dopo il fallito tentativo rivoluzionario di luglio, alcuni esponenti del partito, come Lev Trotsky, erano stati arrestati e gli altri uomini di spicco furono costretti a nascondersi come il loro capo.

I bolscevichi si erano dati da soli questo nome, pretendendo di rappresentare la maggioranza dei rivoluzionari (bolshinstvo, in russo). Ma in realtà erano la minoranza, mentre i menscevichi non erano stati capaci di scrollarsi di dosso la definizione che veniva usata come una accusa infamante (menshinstvo, in russo) nonostante rappresentassero invece la maggioranza. I bolscevichi erano comunque i più attivi, i più esagitati, i più presenti in ogni luogo. Nei Soviet (consigli) dei soldati, creati in tutti i reparti, nelle fabbriche, tra gli studenti. Man mano che le cose andavano avanti, l’idea dell’insurrezione per togliere il potere dalle mani dei «borghesi» era diventata un piano d’azione. Nascosto in Finlandia e poi nei sobborghi della capitale, Lenin continuava a martellare i suoi con lettere che indicavano tutta la sua impazienza (nella foto sotto di G.P. Goldstein, Lenin sul podio — in piazza Sverdlov a Mosca, davanti al Bolshoi — parla alle truppe dell’Armata Rossa, in partenza per il fronte polacco, nel 1920). La moglie e collaboratrice Nadezhda Krupskaya che manteneva i contatti fu testimone del suo stato d’animo. Quando l’andò a incontrare segretamente a Helsingfors, lo trovò «disperatamente solo, mentre viveva nascosto in un momento che per lui era determinante». In un’altra occasione, la donna gli raccontò di come sul treno pieno di soldati non si fosse parlato che dell’insurrezione. «La sua faccia divenne pensierosa e rimase così per tutto il tempo», ha scritto la donna nei suoi ricordi. A settembre, per proteggersi dal presunto colpo di Stato del generale Kornilov (che invece sosteneva di avere come unico scopo quello di salvare l’esecutivo dagli estremisti rivoluzionari), il governo provvisorio armò i bolscevichi e rimise in libertà gli esponenti incarcerati, compreso Trotsky. Lenin dal suo nascondiglio scriveva. Il sette ottobre al Comitato centrale di Mosca, a quello di Pietrogrado e ai bolscevichi dei Soviet; l’otto ai delegati al Congresso dei Soviet che si sarebbe dovuto tenere a breve. Il nove non resistette più e così si decise a tornare nella capitale in incognito. Dell’insurrezione ormai si parlava apertamente. Tutti lo sapevano ma nessuno faceva nulla, mentre la situazione militare e degli approvvigionamenti era sempre più drammatica   Il nemico premeva su tutto il fronte: le truppe austro-tedesche avevano occupato i Paesi baltici, la Bielorussia e parte dell’Ucraina. A Pietrogrado mancavano i generi alimentari: in alcune manifestazioni gli slogan rivoluzionari erano sostituiti da frasi ben più drammatiche che indicavano semplicemente la situazione di fatto: «Stiamo morendo di fame». Il dibattito politico tra le forze rivoluzionarie si incentrava in quei giorni sul Congresso che avrebbe dovuto precedere la nascita di una repubblica e l’elezione di un parlamento democratico. Lenin e Trotsky volevano a tutti i costi boicottare questo pre-parlamento, ma avevano difficoltà a far passare la loro linea. Erano in minoranza anche tra i bolscevichi: in un’occasione, la proposta di Trotsky fu respinta con 77 voti contro 50. Lenin si sentiva costretto (ancora per poco) a rispettare il gioco della maggioranza e della minoranza. E, naturalmente, si lamentava: non c’è certo bisogno di una maggioranza per fare la Rivoluzione! Ai suoi spiegava in dettaglio: «L’insurrezione armata è una forma speciale di lotta politica, soggetta a leggi particolari che devono essere soppesate con attenzione» (nella foto sotto, Lenin e altri membri del partito guardano il monumento a Karl Marx, nel 1918). Dell’insurrezione si discuteva sui giornali alla luce del sole, senza che il governo provvisorio se ne preoccupasse eccessivamente(  Ancora una volta, quando le cose stavano per maturare secondo i suoi voleri, Lenin non era sul luogo dell’azione, come era avvenuto a febbraio quando la dinastia dei Romanov era stata rovesciata. Ma in questo caso il capo dei bolscevichi non voleva perdere il treno e così decise il tutto per tutto: si tagliò la barba, si infilò un cappellaccio con una benda che gli copriva una parte dei viso e raggiunse all’ultimo minuto i compagni che erano riuniti al collegio Smolnij, nel centro di Pietrogrado. Lenin e i bolscevichi erano disposti a fare e a dire qualunque cosa pur di prendere il potere, visto che per loro era iniziata la Rivoluzione che avrebbe portato allo sconvolgimento dell’ordine mondiale e al raggiungimento del socialismo. Promettevano la terra ai contadini, il potere proletario agli operai, la democrazia parlamentare con libere elezioni ai borghesi «illuminati» che, per questo, finirono per appoggiarli, nonostante non condividessero le loro idee di fondo. Sull’altro fronte invece gli avversari di Lenin erano pieni di dubbi e di scrupoli. Il primo ministro Kerensky non poteva accettare la pace a qualsiasi costo (come poi fecero i bolscevichi) perché era convinto che gli imperi centrali a quel punto sarebbero riusciti a vincere sull’altro fronte, spostando truppe a Ovest. E poi, magari, avrebbero potuto nuovamente concentrarsi sulla Russia annientandola. Tutte le riforme necessarie, inoltre, dovevano essere democraticamente decise, secondo il primo ministro, dopo la convocazione dell’Assemblea costituente. Erano simili gli scrupoli dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari che forse avrebbero potuto anche prendere il potere a luglio, quando controllavano la maggioranza nei Soviet. Ma molti di loro, come i menscevichi, credevano fermamente nelle teorie di Marx e pensavano che prima di iniziare in Russia una rivoluzione socialista, fosse necessario un lungo periodo di dominio della borghesia capitalista. Inoltre menscevichi e socialisti rivoluzionari, che pure volevano arrivare al socialismo in Russia, erano convinti che dovesse essere il popolo a stabilire il regime futuro. E quindi attendevano l’Assemblea costituente. Fatto sta che mentre i bolscevichi preparavano il colpo di mano, nessuno prese adeguate contromisure. L’unico che aveva capito la pericolosità di Lenin e che voleva usare le truppe fedeli per spegnere qualsiasi focolaio era stato il generale Kornilov, neutralizzato dal primo ministro Kerensky che lo accusava di golpismo. Così quando il sette novembre   i rivoltosi iniziarono a muoversi, trovarono pochissima resistenza. Per tutta la giornata piccole unità di guardie rosse occuparono punti strategici in città, lasciati praticamente senza difese: la centrale telefonica, l’agenzia telegrafica, le stazioni, la centrale elettrica, la banca statale. Non si azzardavano a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno che appariva ben difeso. L’edificio si chiama così perché in effetti la famiglia imperiale lo usava inizialmente come residenza durante l’inverno, mentre d’estate si trasferiva nel palazzo di Alessandro a Tsarskoe Selo, una ventina di chilometri fuori città. Ma da due anni lo zar e la zarina non erano più tornati nel centro di Pietrogrado e il Palazzo d’Inverno era stato adibito a ospedale militare. Poi, dopo la Rivoluzione di febbraio, il governo provvisorio di Kerensky vi si era insediato. Si tratta, come molti sanno, di un edificio immenso che già all’epoca custodiva anche numerose opere d’arte le quali, però erano state quasi tutte evacuate all’inizio della guerra. Originariamente azzurrini, i muri erano stati ridipinti di rosso (adesso è invece verde chiaro). All’inizio della giornata fatidica, il Palazzo era difeso solamente dai cadetti di due scuole di artiglieria, fra i 600 e i 2000 ragazzi, a seconda delle fonti. In più c’erano 300 cosacchi e 136 donne del battaglione femminile creato cinque mesi prima. Niente di che, ma per ore i bolscevichi evitarono l’assalto frontale, anche se avevano minacciato di colpire il palazzo con i cannoni di terra e quelli dell’incrociatore Aurora, fatto ancorare nella Neva. Man mano che le ore passavano, la determinazione dei difensori andava scemando. Il governo, chiuso nella sala da pranzo minore, lanciò un appello al Paese e ai cittadini perché intervenissero contro il «folle tentativo dei bolscevichi di sollevare una rivolta nelle retrovie dell’esercito che lotta». Nessuno accorse e, anzi, i difensori si assottigliarono. Se ne andarono i cosacchi, assieme a parte dei cadetti. Con l’arrivo dei marinai della vicina base di Kronstadt, le guardie rosse decisero di attaccare. Il battaglione femminile tentò una sortita, ma poi fu costretto ad arrendersi. Dall’Aurora (nella foto sopra, nel 2014) era partito il famoso colpo di cannone (a salve) che nella mitologia aveva dato il segnale per la Rivoluzione. Gli assalitori iniziarono a penetrare nel palazzo, senza incontrare, in pratica, alcuna resistenza. Arrestarono i membri del governo provvisorio, mentre bande di forsennati si davano al saccheggio. Particolarmente ambita la cantina dello zar dove erano conservate centomila bottiglie di vino, di whisky e di cognac. Per evitare il peggio, i comandanti misero un gruppo di operai armati di fronte all’ingresso, ma questi resistettero solo poche ore. Allora vennero mandati a ristabilire l’ordine gli equipaggi di alcune autoblindo; poi i pompieri. Niente da fare, in breve anche i «guardiani» cedettero all’alcool. Un ultimo tentativo di murare l’ingresso della cantina non ebbe successo e così le bottiglie vennero prese d’assalto: alcune scolate, la maggior parte spaccate, con il vino rosso che scorreva sui pavimenti (nella foto sotto Ansa, un’immagine d’epoca di Lenin con la moglie e due figli, nel 1924). Scene poco edificanti e sulle quali la storiografia ufficiale ha sorvolato. Ma all’epoca suscitarono grande scandalo, tanto che nei giorni seguenti il Comitato militare-rivoluzionario affisse manifesti nei quali gli «ubriaconi e gli sciacalli» venivano bollati come «nemici del popolo»

Il giorno seguente la Pravda scrisse che nell’eroica azione erano morti sei soldati del reggimento Pavlovskij. I loro nomi non si sono mai saputi e quindi molti dubitano che nella presa del Palazzo d’Inverno ci siano stati effettivamente dei morti. Forse sarebbe stata uccisa una delle ragazze del battaglione femminile. Diversa la situazione a Mosca, dove il 12 novembre i bolscevichi assaltarono a colpi di cannone il Cremlino occupato dai cadetti fedeli al governo provvisorio. I danni furono ingenti, alla torre Spasskaya, alle cattedrali dell’Annunciazione e dell’Assunzione, al campanile di Ivan il Grande. Il potere bolscevico si andava consolidando, mentre i tentativi delle truppe regolari di riprendere la capitale fallivano. Già il 20 novembre Lenin iniziò i negoziati con gli austro-tedeschi per giungere a una pace separata. Il trattato fu firmato nel marzo dell’anno successivo e per la Russia era catastrofico. Il Paese rinunciava alla Finlandia, ai paesi baltici, all’Ucraina e alla Bielorussia. Altri territori sul Mar Nero venivano ceduti all’Impero Ottomano, mentre la Bessarabia (oggi tra Moldavia e Ucraina) passava alla Romania. Finiva il conflitto con gli Imperi Centrali ma iniziava la lunga e sanguinosa guerra civile tra rossi e bianchi.

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