La moda cambia pelle. Anzi, logo
C’era una piccola bomba nella newsletter di Zara ricevuta da milioni persone nel mondo la scorsa settimana. Una notifica come un’altra, senza un particolare fragore, che non annunciava solo la nuova campagna primavera-estate della catena spagnola (quella donna firmata tra l’altro Steven Meisel) ma il restyling di un logo a cui non facevamo neanche più caso, tale era la consuetudine che avevamo con quelle quattro lettere stampate su indumenti, etichette e sacchetti di carta. Il caso è scoppiato quando le community di grafici hanno preso in mano la questione scatenando dibattiti a non finire accompagnati da alcuni meme piuttosto spassosi.
Il tema sul piatto è principalmente uno: mentre la maggior parte dei brand del lusso, per quanto riguarda i loro loghi, si sono spogliati delle loro grazie e si sono fatti così chiari da sembrare quasi banali, Zara non solo di grazie ne ha aggiunte ma ha ridotto (quasi) al massimo la distanza tra una lettera e l’altra. Quelli bravi parlerebbero di una contrapposizione tra serif e sans serif, termini a cui quelli che non fanno i grafici di mestiere prestano una distratta attenzione quando si trovano a dover sistemare la formattazione di una mail dopo un copia-incolla. Negli ultimi tempi tra i loghi c’è stata una vera e propria epidemia che ha cancellato storie, accenti, virgole e nomi di battesimo dalle griffe, quasi sempre in concomitanza con cambiamenti di rottaalla direzione creativa.
L’Attila dell’heritage è Hedi Slimane. Dopo aver sforbiciato il nome del fondatore Yves (a Saint Laurent) e dopo aver dato una bastonata al font (in grafica viene chiamato bastone un carattere senza grazie) dando vita a un trend nel 2012, a settembre dello scorso anno ha tolto l’accento sulla e di Celine e ha polverizzato ciò che prima di lui era stato su Instagram. Stesso stile grafico e probabilmente medesima confusione per chi non mastica pane e moda per una tripletta di B: Balenciaga, Burberry e Balmain. C’è una scuola di pensiero che attribuisce alla pulizia tipografica adottata da questi marchi del lusso la volontà di ricominciare da zero accantonando passati ingombranti. Tuttavia più prosaicamente l’operazione si potrebbe giustificare con la scusa di una maggiore chiarezza e leggibilità di questi caratteri sui dispositivi mobili.
Demna Gvasalia ha rivoluzionato il logo di Balenciaga, Riccardo Tisci quello di Burberry a cui ha mantenuto la geolocalizzazione (London England) ma ha tolto la virgola tra stato e capitale. A fine 2018 è stato Olivier Rousteing a rivitalizzare Balmain seguendo da un lato la tendenza sans serif mantenendo il Paris ma, come sottolineano gli ineffabili esperti di moda, ispirandosi più o meno consapevolmente al logo di Laura Biagiotti. Anche Raf Simons all’inizio del 2017 aveva rispolverato il logo di Calvin Klein con la complicità del grafico Peter Saville che ha eliminato le lettere minuscole di un simbolo in virtù di un uniforme maiuscolo che si è rivelato discreto, non troppo gridato.
In netta controtendenza quindi si inserisce Zara con questo cambiamento inaspettato, il secondo dal 2010 quando per la prima volta il colosso fondato da Amancio Ortega nel 1975 si permise di modificare un simbolo in maniera non smaccatamente percettibile. Il rebranding porta la firma di Fabien Baron a capo dell’agenzia Baron&Baron, il quale aveva già curato la direzione creativa della campagna Autunno-Inverno 2018 di Zara facendo fare già capolino a quel logo oggi tanto discusso.
Nelle poche righe affidate al loro sito si parla di questa come «un’opportunità di elevare questo baluardo dello stile democratico avvicinando il brand al livello dei marchi di lusso in una celebrazione di arte e moda per tutti». Curiosando tra i lavori precedenti di Baron già direttore creativo di Harper’s Bazaar negli anni ‘90 (vi dicono niente quella Z, quelle A e quella R a cui è stata allungata la gamba?) si scopre che si deve al designer l’immagine delle precedenti gestioni di – guarda un po’ – Balenciaga, Calvin Klein e Burberry. Se lo studio fondato da Mirko Borsche si è occupato del primo brand, gli altri due sono opera di Peter Saville, non un grafico qualunque ma l’artefice delle copertine degli album dei Joy Division e dei New Order. Se Baron fosse napoletano sulla sua testa campeggerebbe il fumetto «ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost» citando Gomorra e lo farebbe a colpi di grazie ripartendo dal low cost. Al momento il nuovo – che nuovo non è – logo di Zara non registra il pieno gradimento del pubblico ma si sa, c’è sempre un po’ di resistenza al cambiamento. In fondo tutto questo caos per un serif, neanche avessero usato il comic sans. (fonte: vanityfair.it)