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Il 3 settembre di 41anni fa l’agguato mafioso a Palermo contro generale Carlo Alberto Dalla Chiesa Attualità 

Il 3 settembre di 41anni fa l’agguato mafioso a Palermo contro generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Accadde oggi: il 3 settembre 1982 (41 anni fa): il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa viene ucciso in un agguato mafioso in via Carini a Palermo assieme alla moglie e a un agente di scorta. “Chiunque pensasse di combattere la mafia nel ‘pascolo’ palermitano e non nel resto d’Italia – ripeteva il Generale – non farebbe che perdere tempo”. A Palermo, dove arriva ufficialmente solo pochi mesi prima, lamenta più volte il mancato rispetto degli impegni assunti dal governo e la carenza di sostegno da parte dello Stato nella lotta alla mafia. E ne paga le conseguenze. Accanto a lui, anzi morta nell’abbraccio del marito, Emanuela Setti Carraro, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana.

Un uomo che alla fine degli anni ’70 rappresentò per l’intera nazione la salvezza da ogni forma di rischio e di paura, generata dalla feroce attività criminale che dilagava ormai da diversi anni a causa delle Brigate Rosse. Fu lui a condurre la celebre e sanguinosa irruzione di via Fracchia, che portò all’arresto di Patrizio Peci e Rocco Micaletto, brigatisti che con le loro rivelazioni gli permise di sconfiggere le BR.

Il 16 dicembre 1981 venne giustamente promosso Vice Comandante Generale dell’Arma, la massima carica per un ufficiale dei Carabinieri, e l’anno successivo fu inviato a Palermo, in qualità di Prefetto, per destabilizzare il controllo criminale di Cosa Nostra in Sicilia. Il suo destino fu segnato pochi mesi dopo la sua nomina: la sera del 3 settembre, alle 21.15, le strade di Palermo si macchiarono di sangue, e in un vile agguato mafioso, il Generale Dalla Chiesa e sua moglie, Emanuela Setti Carraro, mentre viaggiavano nella loro auto, una Fiat A112, furono affiancati da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il Prefetto e la moglie.

A perire fu anche l’agente di Polizia Domenico Russo, che seguiva e scortava la vettura del Prefetto: fu anch’egli affiancato da una motocicletta e ucciso a colpi di mitra.

Triste ed eloquente fu una frase scritta da ignoti in Via Carini, luogo dell’attentato: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». 

Eppure la gente sentiva di nutrire poche speranze all’arrivo del nuovo prefetto, non per le qualità da lui dimostrate in carriera, ma per lo scarso appoggio politico e di mezzi atti alla risoluzione del problema in regione. Lo stesso Dalla Chiesa, con una pubblica dichiarazione, lamentò la mancanza di strumenti e poteri idonei a fronteggiare Cosa Nostra: “Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”.

Riguardo l’argomento, è giusto fare una riflessione: com’è possibile che Dalla Chiesa, subito dopo l’assassinio di Aldo Moro, per contrastare le Brigate Rosse, fu investito rapidamente di poteri speciali, mentre in Sicilia, invece, nonostante le rivendicazioni della gente e le sue dichiarazioni pubbliche che esternavano il problema, il Governo temporeggiava a concedergli i mezzi necessari per la lotta alla mafia?

Una riflessione senz’altro condivisa dai cittadini siciliani, che alla morte del Prefetto Dalla Chiesa, manifestarono tutto il loro sdegno contro le istituzioni: il giorno dei suoi funerali, infatti, che si tennero nella chiesa palermitana di San Domenico, una grande folla protestò contro le presenze politiche, accusandole di averlo lasciato solo. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le autorità furono sottoposte a lanci di monetine e insulti al limite dell’aggressione fisica.

Solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini venne risparmiato dalla contestazione. La figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne. L’episodio fu l’emblema della sfiducia nelle istituzioni, un giorno in cui un’intera Nazione smise di credere nello Stato.

Alcune questioni sorsero dopo la morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa, a cominciare dal suo rapporto con Giulio Andreotti, l’ex Presidente del Consiglio che dal 1972 al 1979 fu capo del Governo per ben 5 volte. L’operato di Andreotti, insediatosi alla Presidenza del Consiglio subito dopo il sequestro Moro (fino al giorno stesso Presidente del Consiglio in carica) fu duramente criticato dall’opinione pubblica, in particolare per il totale rifiuto di qualsiasi trattativa con i terroristi, non favorendo di certo la guerra alle BR combattuta in prima linea proprio dal Generale Dalla Chiesa. Alla morte di Moro, fu rinvenuto un suo memoriale che Dalla Chiesa ebbe cura di consegnare a Giulio Andreotti, a causa delle informazioni contenute al suo interno; in realtà, secondo la madre di Emanuela Setti Carraro, la figlia le avrebbe confidato che il Generale non consegnò ad Andreotti tutte le carte rinvenute, e che nelle stesse fossero indicati segreti estremamente gravi.

Inoltre, nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che ebbe un colloquio con Andreotti il 5 aprile 1982, poco tempo prima di insediarsi come Prefetto di Palermo, nel quale gli disse chiaramente che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso, alla quale attingevano gli uomini della sua corrente in Sicilia; e successivamente aveva definito la corrente andreottiana a Palermo «La famiglia politica più inquinata del luogo», aggiungendo che gli andreottiani erano fortemente compromessi con Cosa Nostra. Andreotti naturalmente negò simili implicazioni.

Dalla Chiesa pagò a caro prezzo la sua dedizione verso la giustizia e la lotta portata avanti, praticamente da solo, nei confronti della mafia. Per i tre omicidi furono condannati all’ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra  i boss Totò RiinaBernardo ProvenzanoMichele GrecoPippo CalòNenè Geraci e Bernardo Brusca.

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