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Il 3 febbraio 2016 rinvenuto a Il Cairo in Egitto il corpo senza vita di Giulio Regeni Attualità 

Il 3 febbraio 2016 rinvenuto a Il Cairo in Egitto il corpo senza vita di Giulio Regeni

Accadde oggi: era il 3 febbraio del 2016, 9 giorni dopo la scomparsa ,quando in Egitto viene ritrovato il corpo di Giulio Regeni un ricercatore italiano di 28 anni dell’università di Cambridge, scomparso mentre stava lavorando a una tesi di dottorato sui sindacati del paese. Il suo corpo, con i segni di innumerevoli torture, venne trovato abbandonato al lato di una strada. Pochi giorni fa la procura di Roma, dopo una lunga inchiesta, ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro persone, appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani, con l’accusa di aver sequestrato, torturato e ucciso Regeni.L’Egitto ha deciso di non collaborare con le autorità italiane, conducendo un processo autonomo. A differenza dell’Italia, l’Egitto non processerà i rapitori e gli assassini di Regeni, che giudica «ignoti», ma chi rubò i suoi effetti personali, e quindi l’accusa nei loro confronti sarà semplicemente di furto. Secondo questa tesi a rubare gli effetti personali di Regeni sarebbe stata una presunta banda di truffatori che aggrediva cittadini stranieri, fingendo di appartenere alla polizia egiziana con documenti contraffatti. La procura di Roma ha giudicato questa ricostruzione «priva di ogni attendibilità».

Nel gennaio del 2016 Giulio Regeni si trovava in Egitto per una ricerca sui sindacati indipendenti dei venditori ambulanti: un tema politico molto delicato, che il ricercatore affrontò adottando un approccio conosciuto come “ricerca partecipata”, che prevede di trascorrere molto tempo con i soggetti della ricerca. Un tema molto delicato soprattutto per il governo egiziano, che tra i sindacati ha alcuni dei suoi più decisi oppositori politici. Nell’autunno del 2015 Regeni aveva ottenuto un finanziamento di 10mila sterline da una fondazione britannica che si occupa di progetti di sviluppo. Era una somma di denaro che Regeni avrebbe potuto usare come sostegno per le ricerche del suo dottorato e come aiuto per le persone che stava studiando. Era arrivato per la prima volta nel settembre del 2015, poi era tornato in Italia per le vacanze di Natale, e poi di nuovo in Egitto.

Nell’ottobre del 2015 parlò delle sue ricerche con uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, Mohamed Abdallah che, secondo un’informativa dei carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) e dei poliziotti dello Sco (Servizio centrale operativo) depositata tra gli atti dell’inchiesta di Roma, decise di denunciare le attività di Regeni. Accompagnato dal colonnello Ather Kamal, ufficiale della polizia investigativa, Abdallah incontrò, nella sede della National Security, il servizio segreto civile egiziano, il colonnello Helmy e il maggiore Sharif. «Da quel momento – si legge nell’informativa – il sindacalista inizia a riferire tutto quanto sa della vita di Giulio al maggiore Sharif».

Dopo la morte di Regeni, Abdallah raccontò a un giornale egiziano di averlo denunciato per proteggere il suo paese, ma insistette nel dire di non essere una spia. Le autorità egiziane a settembre del 2017 avevano ammesso che Regeni era stato indagato, ma solo nel gennaio 2016 e solo per tre giorni. Gli accertamenti sullo studente, avevano detto gli egiziani nel 2017, non avevano riscontrato «alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale e, quindi, erano cessati». La Procura di Roma, invece, sostiene che Abdallah avrebbe denunciato Regeni nell’ottobre del 2015, e non nel gennaio 2016 come sostenuto da lui, e che le indagini egiziane erano iniziate molto prima della sua scomparsa.

Una data importante nella ricostruzione di quello che successe è l’11 dicembre 2015, quando Regeni partecipò a un incontro pubblico e autorizzato sui sindacati indipendenti. Accaddero due cose: la prima è che Regeni fu impressionato dagli argomenti e dall’energia emersi dalla riunione, e ci scrisse sopra un articolo giornalistico con frasi abbastanza forti; la seconda è che durante l’incontro a un certo punto gli si avvicinò una donna con il velo e lo fotografò. Regeni non era tra gli oratori e l’episodio lo mise in agitazione, raccontarono alcuni amici.

Nell’informativa si specifica che la donna che fotografò Regeni durante l’incontro non sembrava essere conosciuta «da nessuno dei presenti». Carabinieri e polizia scrivono che poi, il 18 dicembre, Abdallah ottenne da Regeni il bando di concorso per la borsa da 10mila sterline, «su richiesta del maggiore Sharif», particolare inizialmente non noto. Poi Regeni tornò in Italia per le vacanze di Natale.

L’informativa ricostruisce poi che il 5 gennaio, durante una riunione alla National Security, il colonnello Helmi e il maggiore Sharif avrebbero spiegato al sindacalista Abdallah come utilizzare una telecamera nascosta per registrare Regeni. «Dall’8 al 21 gennaio – conclude l’informativa – Abdallah sentirà il maggiore Sharif per ben 13 volte al telefono». Abdallah aveva dichiarato che parlando con il maggiore Sharif aveva capito che «volevano tenerlo sotto controllo ancora per sapere cosa avrebbe fatto il 25 gennaio», giorno in cui Regeni fu sequestrato, prima di essere torturato e ucciso.

Il 25 gennaio alle 19.41 Regeni mandò un messaggio alla sua ragazza: «Esco». Fu la sua ultima comunicazione, scritta mentre stava raggiungendo a piedi la fermata della metropolitana di Dokki, la più vicina a casa sua. Era uscito per raggiungere la festa di compleanno di un amico, organizzata vicino a piazza Tahrir, la piazza più importante del Cairo. Regeni era stato a casa tutto il giorno, anche perché il 25 gennaio non era una data come le altre: era il quinto anniversario della rivoluzione del 2011, quella che portò alla caduta di Mubarak e alla successiva ascesa dei Fratelli Musulmani.

La situazione non era tranquilla, come tutti i 25 gennaio dal 2011 a oggi: nelle ore precedenti la polizia egiziana aveva compiuto migliaia di perquisizioni per bloccare iniziative e proteste contro il governo del presidente Abdel Fattah al Sisi. Il quartiere un po’ periferico dove viveva Regeni, comunque, non ne era stato coinvolto. Regeni scomparve quella sera nel tragitto da casa sua al posto dove era stata organizzata la festa con gli amici.

Le indagini in Italia e in Egitto
L’inchiesta della Procura di Roma si avvale anche della testimonianza di due persone che hanno detto di aver visto Regeni dopo il rapimento prima in una caserma, poi in un’altra: la prima si trova vicina alla metropolitana di Dokki, non lontano da dove il ricercatore italiano fu rapito, e la seconda è una caserma dove solitamente, secondo i testimoni, venivano portati i cittadini stranieri. Entrambe le caserme sarebbero utilizzate dai servizi segreti civili egiziani e lì Regeni sarebbe stato picchiato, torturato e ucciso. Le testimonianze proverebbero che il governo egiziano era a conoscenza della scomparsa, delle torture e della morte di Regeni e che l’allora ministro dell’Interno, Magdy Abdel Ghaffar, avrebbe mentito quando, pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Regeni, dichiarò di non sapere cosa fosse successo e che il ministero non conosceva il ricercatore.

La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro persone appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani: il generale Tareq, i colonnelli Helmy e Kamal e per il maggiore Magdi Sharif. L’Egitto però non ha fornito i loro indirizzi alla procura di Roma, nonostante in questi anni avesse più volte ripetuto di voler collaborare alle indagini. Le autorità egiziane, già dal giorno del ritrovamento del corpo di Regeni, secondo la Procura avrebbero mentito e ostacolato la ricerca della verità sulla morte del ricercatore italiano.

Le stesse indagini condotte dalle autorità egiziane produssero quello che la procura di Roma in passato aveva definito una lunga sequenza di tentativi di depistaggio. La procura egiziana disse in un primo momento che Regeni era morto in un incidente stradale. La tesi fu smentita quando venne eseguita l’autopsia in Italia: Regeni era morto per un colpo al collo, dopo essere stato sottoposto a numerose torture. I suoi denti erano stati spezzati, le sue mani fratturate.

Gli investigatori italiani arrivati in Egitto furono ostacolati in ogni modo. Non venne permesso loro di interrogare i testimoni, se non in presenza della polizia egiziana e per pochi minuti. La procura di Giza richiese troppo tardi i video delle telecamere che si trovavano vicino al luogo della sparizione: i filmati di quella notte, a quel punto, risultavano essere già stati cancellati.

Ma il caso di depistaggio più clamoroso fu il modo in cui vennero ritrovati i documenti di Regeni. Il 24 marzo il ministro dell’Interno egiziano scrisse su Facebook che il caso era risolto: i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». I sequestratori erano stati tutti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, quindi non poterono fornire la loro versione.

Il governo egiziano diffuse comunque le foto del passaporto di Regeni, della sua carta d’identità italiana, di una carta di credito e del suo tesserino dell’Università di Cambridge, tutto materiale che secondo gli agenti era stato trovato in possesso del gruppo di criminali. La ricostruzione, però, resse appena pochi giorni. Venne fuori che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro. E c’erano altre cose che non tornavano: per esempio le autorità egiziane non seppero spiegare il motivo per cui dei criminali comuni avrebbero dovuto torturare Regeni per una settimana intera prima di ucciderlo.

In risposta all’omicidio e ai depistaggi compiuti dalle autorità egiziane, ad aprile del 2016 il governo Renzi decise di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto, Maurizio Massari. Nell’agosto 2017, dopo circa un anno di assenza e in seguito a una maggiore collaborazione da parte della procura di Giza, il governo Gentiloni nominò un nuovo ambasciatore in Egitto, Giampaolo Cantini, che è ancora oggi in carica.

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