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Il 27 luglio di 80 anni fa Badoglio dispose lo scioglimento del Pnf Attualità 

Il 27 luglio di 80 anni fa Badoglio dispose lo scioglimento del Pnf

Accadde oggi, la mattina del 27 luglio 1943 (80 anni fa) a Roma, nel palazzo dl Viminale, si riunì per la prima volta il nuovo governo Badoglio, nominato dal re Vittorio Emanuele III dopo le “dimissioni” e l’arresto di Mussolini.

Il primo governo Badoglio era composto da diciassette ministri scelti tra tecnici, burocrati e militari, tutti tesserati del partito fascista. Nessun politico, nessun esponente vicino all’antifascismo. Ministro degli esteri era Raffaele Guariglia, ambasciatore in Turchia. Agli interni Bruno Fornaciari, già prefetto di Trieste e di Milano. Alla giustizia il magistrato Gaetano Azzariti, già direttore generale dello stesso ministero. Alle finanze Domenico Bartolini, provveditore generale dello Stato. Agli scambi e valute Giovanni Acanfora, direttore generale della Banca d’Italia. All’educazione nazionale Leonardo Severi, docente universitario, già direttore generale dello stesso ministero. Ai lavori pubblici Domenico Romano, capo di gabinetto del suo predecessore fascista.

Restavano il ministero delle corporazioni, istituito da Mussolini, affidato a Leopoldo Piccardi, consigliere di Stato, il ministero della cultura popolare, il tristemente famoso “Minculpop”, con alla guida Guido Rocco, dal 1936 direttore della stampa estera allo stesso ministero e, anche se le colonie non ci sono più, il ministero delle colonie e dell’Africa italiana, con a capo il generale Melchiade Gabba.

Altri ministri erano: Alessandro Brizi, già capo di gabinetto del ministro fascista Acerbo, all’agricoltura; il generale Antonio Sorice alla guerra; l’ammiraglio Raffaele De Courten alla marina e il generale Renato Sandalli all’aviazione. Il generale Federico Amoroso alle comunicazioni. C’era anche un ministro confermato dall’ultimo governo Mussolini, il generale Carlo Favagrossa, alla produzione bellica.

Il nuovo governo nominò capo della polizia Carmine Senise, che aveva ricoperto lo stesso incarico anche con Mussolini, fino a tre mesi prima, e ne era stato rimosso il 14 aprile perché accusato di non essere stato sufficientemente duro nella repressione degli scioperi di Milano e Torino del mese di marzo di quel 1943.

Per tutto il giorno 26 luglio, la notizia della riunione del Gran Consiglio del fascismo e delle dimissioni del “duce” era stata tenuta coperta. Si rincorrevano diverse voci, ma non si sapeva niente di preciso. Soltanto l’indomani, 27 luglio, l’agenzia stampa “Stefani” diffuse un comunicato di cui non citava la fonte, che non tutti i giornali pubblicarono e nemmeno la radio diffuse. In realtà quel comunicato era stato preparato da Dino Grandi, l’autore dell’ordine del giorno che aveva sfiduciato Benito Mussolini. Grandi aveva molto insistito, tutto il giorno perché il comunicato venisse diramato, ma aveva trovato la contrarietà del re e del nuovo governo, i quali avrebbero preferito che del voto nel Gran Consiglio del fascismo che aveva messo in minoranza Mussolini e aperto la crisi del regime fascista non si fosse parlato affatto.

Grandi ricorse allora ad uno stratagemma: consegnò il testo del comunicato ai rappresentanti diplomatici di Spagna e Svizzera, pregandoli di passare il comunicato stesso alla stampa dei loro rispettivi paesi. E fu così che il governo Badoglio si vide costretto a consentire che l’agenzia Stefani uscisse dal cassetto le notizie di importanza storica, purché invitasse i giornali a non darvi rilievo o, addirittura, a non pubblicarla.

Il comunicato riportava il testo del documento (ordine del giorno Grandi) approvato dal Gran Consiglio del fascismo che, come si faceva rilevare, “non era stato più convocato dal 7 dicembre 1939, cioè da prima dell’entrata in guerra dell’Italia” e riferiva di una discussione “durata ininterrottamente dieci ore, cioè fino alle ore tre antimeridiane del 25 luglio. Alla fine di essa l’ordine del giorno presentato da Grandi ha avuto 19 voti favorevoli, contrari 7, ed uno astenuto”.

Il testo dell’ordine del giorno Grandi era piuttosto vago sui possibili, immediati sviluppi della vicenda italiana e della guerra. Nei passi salienti si chiedeva “l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali” invitando “il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e per la salvezza della Patria, assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre intuizioni a lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.

Senza i comunicati della sera del 25 luglio sulle dimissioni (ma non ancora sull’arresto) di Mussolini e sull’incarico conferito dal re a Badoglio di formare un nuovo governo, la gente comune avrebbe potuto capire ben poco.

Soprattutto, sia nell’ordine del giorno approvato dal Gran Consiglio che nel comunicato passato alla stampa il 27 luglio, con la raccomandazione della sordina, mancava ogni riferimento alle intenzioni che Dino Grandi e i “camerati” a lui più vicini avevano inizialmente concepito, di abolire “il regime totalitario e dare a tutti i partiti politici la libertà di svolgere la loro attività”, garantendo “a tutti i cittadini indistintamente la loro uguaglianza di diritti e di doveri di fronte alla legge”.

Ma non erano queste le intenzioni del re e di Badoglio. L’obiettivo del re e dei militari che, come abbiamo visto, erano presenti in gran numero nella composizione del governo, era quello di tenere in mano il potere allontanando per il maggior tempo possibile i fastidi della democrazia. I badogliani avevano una sola priorità: chiedere la pace agli Alleati e salvare la monarchia.

Badoglio, tra l’altro, tendeva ad accentare tutto su di sé, il suo governo sarebbe stato riunito ancora una volta il 5 agosto, e poi mai più.

Nella riunione di insediamento del 27 luglio, il nuovo governo deliberò lo scioglimento del partito fascista e della Camera dei fasci e delle corporazioni e la soppressione del Gran Consiglio del fascismo e dei tribunali speciali (ma non l’abrogazione delle leggi razziali). Tuttavia, accanto a queste decisioni il governo impose anche il divieto di costituire associazioni politiche, cioè partiti, vietando perfino di esibirne i simboli o di portarli all’occhiello della giacca.

I poteri dei prefetti furono demandati alle autorità militari, cui venne ordinato di “considerare i dimostranti come ribelli” e di far sparare contro di loro “senza preavviso”. Furono proibite le riunioni di più di tre persone e considerati decaduti tutti i permessi di porto d’armi e fu ordinato di tenere i portoni delle case aperti e illuminati giorno e notte.

Furono diramate circolari con l’ordine di reprimere col massimo rigore cortei e assembramenti e ogni manifestazione “che turbi l’ordine pubblico”.

In una circolare attribuita al generale Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, si leggeva chiaramente che “Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito” e si intimava di abbandonare “i sistemi antidiluviani quali i cordoni, gli squilli, le intimidazioni e la persuasione”, che “i reparti devono assumere e mantenere sempre grinta dura”, “si proceda in formazione di combattimento e si apra il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglierie”, “non è ammesso il tiro in aria; si tiri sempre a colpire, come in combattimento”, “i caporioni e gli istigatori del disordine, riconosciuti come tali, siano senz’altro fucilati, se presi sul fatto”; “il militare impiegato in servizio d’ordine che compia il minimo gesto di solidarietà con i dimostranti… venga immediatamente passato per le armi”.

Il risultato di simili disposizioni si vedrà subito. Dal 26 al 30 luglio 1943 gli interventi della forza pubblica causarono 83 morti e 308 feriti e furono eseguiti più di 1500 arresti.

Particolarmente significativi i fatti avvenuti a bari il 28 luglio, un giorno dopo l’insediamento del primo governo Badoglio. Il principale giornale locale, la Gazzetta del Mezzogiorno, il cui direttore fascista, Pupino Carbonelli, ha tagliato la corda, esce con un articolo scritto dal caporedattore Luigi De Secly, dal titolo “Viva la libertà”. L’articolo annuncia l’imminente scarcerazione degli antifascisti baresi tenuti in carcere, come lo storico della filosofia Guido De Ruggiero, l’eminente meridionalista Tommaso Fiore, collaboratore della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti, Giorgio Fenoaltea, Federico Comandini.

Così in quella stessa mattina un centinaio di giovani si ritrova nella piazza Umberto di Bari per andare alla caserma Rossani, in via 28 ottobre, sede del carcere militare, per festeggiare l’uscita dei detenuti che tutti pensano stiano per essere liberati (in effetti lo saranno nel pomeriggio). Meta dei dimostranti, tutti disarmati, è il carcere, non la sede del partito fascista che si trova nei pressi della piazza luogo del ritrovo, in via Nicolò dell’Arca, strada sbarrata da un reparto dell’esercito, con i fucili puntati e le pallottole in canna. All’improvviso il fuoco, partito non si bene se dai soldati o dalle finestre della federazione del fascio. Una sessantina di corpi restano a terra, cinque sono morti, mentre altri sette moriranno in ospedale, fra loro il figlio di Tommaso Fiore, Graziano.

Nel pomeriggio il caporedattore della Gazzetta del Mezzogiorno, Luigi De Secly, l’autore dell’articolo intitolato “Viva la libertà” viene arrestato con l’imputazione di incitamento all’insurrezione.

Difficile dire se queste vite siano da considerare le prime vittime della democrazia o le ultime della dittatura. È certo invece che gli italiani non seppero nulla di quanto accadeva, perché in quei giorni l’informazione fu negata, i giornali e la radio stretti nella morsa della censura. Roberto Suster, il direttore dell’agenzia Stefani, che per tutto il ventennio è stata lo strumento della propaganda fascista, la mattina del 27 luglio mandò un telegramma a tutte le testate giornalistiche: “Mutamento regime – vi si legge – avvenuto Italia per volontà Re richiesto ed attuato per potenziate tutte risorse et possibilità nazionali così da portare unione nazione sotto egida dinastia stop fiammata patriottica che pervaso paese conferma et dimostra esercito costituisce fulcro verso nazione invasa stop norma desiderio espresso dal Sovrano nessun risentimento nessun livore deve affiorare per passato vicino aut lontano nessuna questione personale deve essere sollevata stop ricordare che non si tratta di rivoluzione anti questo aut quello ma di logiche deduzioni et conseguenze tratte da situazione generale stop agenzia Stefani continua sua attività quale organo interesse pubblico et nazionale”.

Nel diario di Suster si racconta che fu proprio il ministro della Real casa, il duca Acquarone, a pregarlo di assicurare il funzionamento della Stefani e che fu il nuovo ministro della cultura popolare, Guido Rocco, a mandargli un telegramma di conferma nella carica di direttore della Stefani, promuovendolo, peraltro, anche al ruolo di direttore generale dell’agenzia.

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