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Accadde oggi: l’11 aprile del 2006 la resa del super boss latitante per 43 anni Bernardo Provenzano Attualità 

Accadde oggi: l’11 aprile del 2006 la resa del super boss latitante per 43 anni Bernardo Provenzano

Sono trascorsi 14 anni da quell’11 Aprile 2006. Una giornata storica per Palermo e per l’intera Sicilia: dopo 43 anni di latitanza il super boss Bernardo Provenzano, detto Binnu u’ Tratturi, veniva arrestato dagli agenti della Squadra mobile di Palermo e dello Sco della Polizia di Stato. Ricercato dal 10 settembre del 1963, Provenzano fu scovato dagli uomini della Catturandi in un casolare isolato a Montagna dei Cavalli, nelle campagne della sua Corleone. L’elicottero della polizia vola sopra Roma, un po’ prima del tramonto di martedì 11 aprile. Lassù ci sono Bernardo Provenzano, 73 anni, capo di Cosa nostra, e gli agenti che hanno appena interrotto la sua fuga cominciata nel 1963. Zu Binu, zio Bino come lo chiamano i mafiosi, avvicina il suo volto da sfinge al grande finestrino e guarda scorrere i palazzi del potere. Sullo sfondo sfilano il tetto di Montecitorio, Palazzo Chigi, il Tricolore che sventola sul Quirinale. Forse non li nota o forse ripensa alla storia d’Italia, andata e che verrà, come soltanto lui e pochi altri conoscono. All’improvviso il pilota muove la barra verso ovest e sotto i piedi di quei pochi passeggeri passano il cupolone di San Pietro e il Vaticano. Provenzano si sporge per guardare meglio. Si fa tre segni della croce, uno dopo l’altro. Tre, come i crocefissi sulla catenina d’oro che ha al collo. Poi stringe le mani e prega in silenzio. Sono le ultime immagini del mondo libero negli occhi di uno degli uomini più feroci d’Europa. Poco dopo l’elicottero atterra finalmente nel cortile del carcere di Terni. E, anche per l’imprendibile boss dei boss, l’orizzonte ha ora tutt’altra prospettiva. I cacciatori di Provenzano, 18 poliziotti della squadra mobile di Palermo e otto del servizio centrale operativo della polizia, hanno più volte rischiato di fallire. E forse, se negli ultimi giorni di ricerche il cielo non fosse stato così limpido, non lo avrebbero mai preso. Ecco i retroscena mai raccontati della cattura. I pedinamenti Bisogna tornare indietro di alcuni mesi e lasciare Palermo. Nel 2005, i ragazzi della Squadra mobile decidono di ricominciare le ricerche dalla grande villa a due piani della famiglia Provenzano, in contrada Punzonotto, periferia di Corleone. Lì abitano la compagna del boss, Benedetta Saveria Palazzolo, 65 anni, e i figli Angelo, 31, e Francesco Paolo, 24, da poco scelto dal ministero dell’Istruzione per insegnare italiano in una scuola in Germania. Tre mesi fa vedono uscire dalla villa un collega di Angelo Provenzano, Giuseppe Lo Bue, 36 anni. Con il figlio del boss vende e ripara aspirapolveri. Fin qui storia già raccontata. Quel pomeriggio Lo Bue ha in mano un sacchetto azzurro della spazzatura. A casa dei Provenzano si fa vedere una volta ogni dieci giorni, sempre di pomeriggio. Ma è la seconda volta che esce dalla villa con un sacchetto azzurro che poi carica sulla sua Audi 4 Station Wagon: «Se per due volte succede la stessa cosa, vuol dire che c’è una regola», immaginano quel giorno gli investigatori. A inizio febbraio vedono Lo Bue togliere un altro sacchetto dalla sua auto e metterlo sulla Opel Astra del padre, Calogero, 60 anni. La casa di Calogero Lo Bue è a poche centinaia di metri dai Provenzano, sulla strada che sale verso la montagna di Rocca Busambra il bosco della Ficuzza. L’uomo da pedinare adesso è lui. Un aiuto arriva dalle microtelecamere piazzate in paese da polizia e carabinieri in anni in cui le indagini hanno sempre portato qui. Il pomeriggio di sabato 25 marzo gli agenti sorvegliano la casa di Calogero Lo Bue. Da qualche giorno lì dentro c’è un altro sacchetto. Padre e figlio salgono sull’Opel Astra. Giuseppe al volante, l’altro accanto. Attraversano il centro di Corleone, seguiti da una Golf: è intestata a una donna, alla guida c’è il marito. Si chiama Bernardo Riina, 68 anni e un guaio negli anni ’80 per essersi inventato un alibi. Nella salita di via del Calvario, una strada stretta che taglia in due il paese, gli agenti devono interrompere l’inseguimento. Da un punto di osservazione parallello, altri investigatori assistono allo scambio: Calogero Lo Bue con il sacchetto lascia il figlio e sale in macchina con Riina. La Golf riparte. Dopo cento metri incrocia una strada. A destra si va a Campofiorito. A sinistra, verso il bivio per Prizzi. Ancora una volta il capo di Cosa nostra ha vinto. La Golf è persa. Ma poco tempo dopo riappare in paese con i due uomini. La strada per Campofiorito era controllata da agenti nascosti in un bosco. Lo stesso quella per Prizzi. Le due pattuglie raccontano di non avere visto la Golf. Significa che Riina e Lo Bue non hanno lasciato la zona. È lì ci sono soltanto altre due vie senza uscita: quelle che salgono a Montagna dei cavalli. L’accerchiamento Ormai è come un’operazione militare. Il servizio centrale della polizia mette a disposizione termocamere in grado di rilevare la presenza di persone dal loro calore corporeo. Ma diventano inutili: «Il problema sono i cani. Per usare quegli strumenti, bisogna avvicinarsi molto alle masserie e i cani abbaiano», raccontano gli investigatori. Per vedere meglio, i cacciatori di Provenzano decidono di andare il più lontano possibile. Ad almeno 8 chilometri, in un bosco, sopra contrada Casale. Piazzano un Celeston, uno di quei grandi telescopi portatili usati per osservare le stelle. Per ogni loro spostamento, si muovono di notte tra l’una e le tre, quando il paese dorme. A volte devono smontare in fretta l’osservatorio per non essere visti dai guardiani della Forestale. Non si fidano di nessuno. Dal telescopio seguono tante scene di vita quotidiana a Corleone. Lo Bue va a casa di Riina, proprio in fondo alla valle. Un’altra volta Riina sale sulla sua Golf e dopo un po’ riappare sulla strada per Montagna dei cavalli. Ma da lì è impossibile scoprire quale sia la meta. Gli alberi nascondono la fine delle indagini. Bisogna salire sulla cima opposta, Montagna vecchia. È un pascolo spoglio, circondato da pareti di roccia verticali. Là sopra nessuna persona si può mimetizzare. Martedì 4 aprile, una settimana prima dell’arresto, entra in funzione la telecamera radiocomandata. Gli agenti l’hanno nascosta tra le pietre sotto la cima di Montagna vecchia. E da adesso, quasi ogni notte, qualcuno deve andare a cambiare le batterie. Salgono dal versante opposto, un’ora a piedi lungo un canalone. Devono anche aggirare i cani e i pastori di guardia a una mandria. Da lassù la telecamera inquadra la Golf di Riina dentro la masseria di Giovanni Marino, 42 anni, un pastore incensurato. Il cielo sereno è d’aiuto, perché con le nuvole non avrebbero visto nulla. Per ricevere le immagini in diretta, viene nascosta un’antenna in una costruzione abbandonata sul versante opposto.
Quella mattina i poliziotti rimangono accovacciati fino a notte perché Giovanni Marino porta le sue pecore proprio nel prato accanto al piccolo casolare. Vengono intanto controllati i consumi di elettricità nell’ovile. Si scopre un picco durante l’inverno: qualcuno si è scaldato con una stufa elettrica. Il primo sguardo «Quando poco prima delle 8,30 dalla telecamera è stato visto quel braccio uscire dalla porta, noi eravamo già pronti al blitz», raccontano gli agenti: «Aspettavamo l’ordine con il cuore a 3 mila, dentro due furgoni chiusi, come per Giovanni Brusca. Avevamo le armi in mano e i passamontagna “mefisto” sul volto. Anche senza quel braccio, saremmo intervenuti». Fino a domenica 9 aprile, giorno delle elezioni, però c’è ancora un dubbio: che quell’ovile sia solo un punto di transito di pacchi e pizzini. Ma lunedì per ben due volte la telecamera inquadra una stranezza: quando il pastore Marino si avvicina al covo, la porta in ferro e vetro si muove un istante prima che lui appoggi la mano sulla maniglia. Adesso quella vetrata è a pezzi. La reazione di Provenzano l’ha fatta cadere addosso agli agenti. «Chi sei?», urla il caposquadra quando se lo trova davanti. «Voi non sapete quello che fate», risponde il capomafia. Ma a quel punto i suoi cacciatori sono più che sicuri: «Io l’ho capito al primo sguardo, dagli occhi e dagli zigomi. Provenzano ha gli stessi occhi blu del figlio Angelo e i tratti somatici di suo fratello Simone», rivela uno dei primi a entrare. Sulla scrivania, proprio sopra agli ultimi pizzini, zu Binu ha lasciato un righello giallo con il logo della Sogema. Per Provenzano quel nome è forse l’inizio della fine. Perché è la ditta legata a Ciccio Pastoia, l’uomo che avrebbe dovuto proteggerlo per sempre: ma è finito in carcere con mezzo mandamento dopo aver parlato troppo vicino a una microspia. In Cosa nostra gli errori si pagano. E Pastoia si uccise in cella.  Zio Bino morirà a 83 anni nell’ospedale San Paolo di Milano due lustri dopo la cattura dell’11 aprile 2006.

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