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Il 7 agosto del 1990 in via Poma a Roma uno dei più misteriosi delitti della storia d’Italia Attualità 

Il 7 agosto del 1990 in via Poma a Roma uno dei più misteriosi delitti della storia d’Italia

Accadde oggi: era il 7 agosto del 1990, 33 ani fa, uno dei più misteriosi delitti della storia d’Italia. Quello della bella segretaria Simonetta Cesaroni, 19 anni. Il 7 agosto di 31 anni fa doveva finire il suo lavoro negli uffici dell’A.i.a.g.. al civico 2 di via Poma, a pochi passi da piazza Mazzini. Quello al numero 2 è un grande complesso residenziale signorile, disegnato negli anni Trenta dall’architetto, Cesare Valle, rimasto poi inquilino del grande stabile composto da sei palazzine, sei alveari di lusso dove diversi portieri tra cui Pietro Vanacore, detto Pierino, responsabile della scala B ed egli stesso residente insieme alla moglie, Giuseppa De Luca, vigilano. Un palazzo rispettavile e tranquillo la cui unica macchia era la tragica morte di Renata Moscatelli, soffocata con un cuscino nella sua casa da una mano sconosciuta. Una storia oscura di quelle di cui non si parla volentieri nei condomini e di cui di certo di non ne sapeva nulla la segretaria Simonetta, quando, il pomeriggio del 7 agosto, attraversa l’atrio del palazzo per andare in
Quel pomeriggio la ragazza non rispetta non gli orari convenuti per il ritorno, non risponde al telefono dell’ufficio, non contatta le amiche, insomma esce dal radar della famiglia alla quale era abituata a comunicare ogni passo. Per questo, spaventata più che mai, sua sorella Paola si mette in contatto con Salvatore Volpone, e insieme raggiungono l’appartamento al terzo piano di via Poma. Arrivano davanti all’appartamento al terzo con la targa Reli Sas e dell’A.I.A.G, intorno alle 20, Volpone apre con le chiavi, c’è una luce accesa, l’appartamento è silenzioso, si sente solo il ronzio delle lampadine. Percorre il corridoio, si affaccia in una selle stanze, poi indietreggia e respinge Paola indietro. Sul pavimento, con la testa rivolta alla porta in un lago di sangue, seminuda con il corpetto sollevato sul seno  scoperto e senza biancheria, ma con i calzini ancora ai piedi, c’è la povera Simonetta. Giace scomposta con le gambe divaricate. Sul suo corpo ci sono i segni di decine e decine di coltellate: agli occhi, nella vagina, sui seni.. Simonetta è stata uccisa in un ufficio con la porta chiusa, le sue chiavi sono sparite. È stata uccisa con rabbia, presenta ferite sul volto, sull’addome, sui seni, dove appare anche un vistoso morso su un capezzolo. È stata colpita con un’arma appuntita, verosimilmente, un tagliacarte che però non viene ritrovato.

La dinamica, nonostante l’assassino si sia dato un gran da fare per ripulire la scena, lavando il sangue, appare chiara dall’autopsia. Simonetta ha lottato, poi è stata neutralizzata con un colpo alla testa, forse uno schiaffo, è caduta, è stata montata dall’assassino che l’ha sovrastata inginocchiandosi su di lei, presumibilmente per violentarla come testimoniano i lividi sulle anche. Mosso da una rabbia incontrollabile l’ha trapassata con l’arma, poi, prima di andare, le ha chiuso gli occhi, ha appoggiato sul seno il top che indossava. Appare evidente che chiunque fosse, sapeva come muoversi in quell’ambiente. Ha ripulito, portato via le chiavi di Simonetta, ma ha dimenticato tracce di sangue sul telefono e la maniglia della porta, dove la scientifica preleva i campioni per estrarre il DNA. Il risultato è sorprendente, ve ne sono due: quello del killer e di un “pulitore”. Alcuni vestiti di Simonetta sono stati portati via, la borsetta invece, appare frugata e scomposta, ne sono state prelevate le chiavi e utilizzate per chiudere l’appartamento. In tal modo, l’omicida, avrebbe voluto suggerire di essere entrato dalla porta aperta da Simonetta e non con chiavi proprie. Particolari che orientano le indagini all’interno del prestigioso edificio: il mostro è lì. Ma per affinare la rosa dei sospetti occorre confrontare il Dna prelevato dal sangue sulla porta con quello di alcuni sospettati: 29 persone vengono scagionate. Tra queste il portiere Pietrino Vanacore, da subito sotto la lente degli inquirenti perché, nella finestra temporale in cui si colloca l’omicidio, dalle 17.30 alle 18.30, non era con gli altri portieri giù nel cortile. Dopo 26 giorni in carcere, Vanacore viene rilasciato per mancanza di prove. Nel calderone di ipotesi gettate sul piatto anche dalla stampa, più che mai interessata al giallo romano, spunta un’altra pista: quella del giovane Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare, che per coincidenza abita qualche piano più in alto dell’appartamento dove è andato in scena il delitto. Contro di lui c’è una testimonianza inquietante: due anni dopo i fatti, mentre le indagini sono in pieno svolgimento, un austriaco di nome Roland Voller contatta gli investigatori dicendo di sapere chi ha ucciso Simonetta Cesaroni. Riferisce di essere entrato in contatto per caso con Giuliana Valle, ex moglie di Raniero Valle, figlio del vecchio architetto Cesare. Giuliana avrebbe rivelato a Voller che suo figlio Federico, il 7 agosto 1990, sarebbe tornato a casa sconvolto e sporco di sangue, presumibilmente, conclude Voller, dopo aver ucciso Simonetta, Il movente? La rabbia per la presunta relazione tra suo padre e la ragazza. L’ipotesi regge poco, pur ammettendo di conoscere l’austriaco, Giuliana Valle nega di avergli mai fatto tale confidenza e il testimone, sul quale pesa una fama di informatore poco attendibile della polizia di Roma, viene etichettato come non credibile. Una perizia successiva sul corpo di Federico Valle, escluderà anche la presenza di cicatrici procurate durante una ipotetica colluttazione con Simonetta.

Il sospettato numero uno, tuttavia è Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta. A carico  del giovane vi è un alibi labile, fornito da sua madre, la presenza del DNA sul corpo di Simonetta, in particolare sul vistoso morso presente seno della ragazza e un movente, rappresentato dal rapporto conflittuale tra i due. Per Raniero Busco l’aula del tribunale si apre nel 2009 , ben 19 anni dopo i fatti, quando il pubblico ministero Ilaria Calò avanza l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà contro di lui. Ci vorrà un anno perché venga a chiamato a testimoniare Pietrino Vanacore, il portiere. Prima che possa salire sul banco dei testimoni, Vanacore viene trovato annegato in località Torre Ovo, vicino Torricella, dove viveva. “Vent’anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”, lascia scritto in un biglietto. Raniero Busco, unico rinviato a giudizio, viene assolto per non aver commesso il fatto. E il mistero, a distanza di 31 anni, continua.

 

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