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Il 15 novembre di 89 anni fa nasceva la casa editrice Einaudi Attualità 

Il 15 novembre di 89 anni fa nasceva la casa editrice Einaudi

Accadde oggi: il 15 novembre 1933 (89 anni fa) nasceva a Torino la «Giulio Einaudi Editore» al terzo piano di via Arcivescovado 7, nello stesso palazzo che era stato sede dell’«Ordine Nuovo» di Antonio Gramsci. “L’interesse” delle autorità per la neonata casa editrice non tarda a venire. Una nota della polizia alla segreteria particolare di Mussolini annuncia che essa «avrà il compito di diffondere pubblicazioni antifasciste abilmente compilate» e segnala che si sono svolte riunioni a Torino, Milano e Firenze per «aggruppare gli azionisti o sovventori» fra i quali ci sono «Nello Rosselli fratello del fuoruscito; il senatore Ruffini, Luigi Einaudi, il senatore Della Torre» e altri non meglio identificati «professionisti torinesi e milanesi». Il documento è del 9 marzo 1934. Quello stesso anno la casa editrice, che aspira a realizzare «un progetto editoriale con interventi nel campo della storia, della critica letteraria e della scienza e con l’apporto di tutte le scuole valide, non appiattite dal prevalere della politica sulla cultura», pubblica il primo volume: “Che cosa vuole l’America?” di Henry Agard Wallace, allora vicepresidente degli Stati Uniti, con una coraggiosa prefazione di Luigi Einaudi. «Di ben 31 pagine», scrive stizzito Mussolini sul «Popolo d’Italia». La grande avventura è cominciata. Giulio Einaudi gestisce l’impresa fin dall’inizio in maniera collegiale. Non fa l’editore padrone, è come un principe illuminato che ama il lavoro di gruppo. Ogni scelta matura in appassionate discussioni con i suoi amici-collaboratori. In quelle che saranno poi le tradizionali riunioni del mercoledì è lui che ha l’arte di attizzare i contrasti per provocare benefici e proficui scatti delle intelligenze. Da subito dedica una cura particolare alla fattura dei libri: la carta, la legatura, le copertine (a lungo disegnate da Francesco Menzio), e anche la grafica per la quale sarà all’avanguardia grazie alla collaborazione di maestri come Bruno Munari, Albe Steiner e Max Huber.
Significativo dello spirito che anima l’impresa editoriale diventa ben presto il simbolo che comincia ad apparire sui libri, l’ormai famoso struzzo nell’atto d’ingoiare un chiodo con il motto: «Spiritus durissima coquit», ovvero una volontà capace di digerire anche i chiodi. Una volontà che rasenta la fede nelle vicissitudini dei primi dieci anni, quando Einaudi e soprattutto i suoi più stretti collaboratori devono fare i conti con arresti, condanne al confino, con tutti i drammatici problemi del fascismo e della guerra. Einaudi collabora con il gruppo torinese di «Giustizia e libertà» e, il 15 maggio del ’35, subisce l’arresto, insieme con i suoi amici Mila, Ginzburg, Foa, Antonicelli, Bobbio, Pavese, Carlo Levi e Luigi Salvatorelli. E’ prima imprigionato, poi inviato al confino.

Ma nel ’36 il lavoro della casa editrice può riprendere. Leone Ginzburg e Cesare Pavese sono le due colonne su cui poggia la casa editrice. Il primo, innanzitutto, che affianca l’amico editore fin dall’inizio e fornisce «i primi semi che, germinati, sarebbero poi cresciuti». E si tratta della collana dei “Saggi”, di quelle dei “Narratori stranieri tradotti” e della “Biblioteca di cultura storica”. Pavese entra invece a lavorare a tempo pieno dopo un primo periodo di collaborazione in cui ha fatto, sono sue parole, «il cavallo di stanga del biroccio di Einaudi». E col suo arrivo porta le traduzioni di Defoe, Gertrude Stein, Dickens, Melville e altri, le sue opere di narratore e poeta, le sue letture e revisioni di testi da pubblicare.
In questo menage intellettuale a tre se Leone Ginzburg e Giulio Einaudi di tanto in tanto litigano, non si parlano per qualche giorno e poi si riconciliano scrivendosi lunghe lettere, Pavese fa la parte del castigamatti. È così meticoloso, puntiglioso, preciso da trovare sempre qualcosa su cui brontolare. Rimprovera soprattutto i compagni di arrivare troppo tardi la mattina, lo irrita che se ne vadano a mangiare addirittura alle tre. Lui invece è già lì la mattina molto presto e se ne va puntualmente all’una. Non rinuncia alle sue abitudini anche cascasse il mondo. Infatti quando i bombardamenti dell’agosto 1943 colpiscono la nuova sede della casa editrice in corso Galileo Ferraris (lo stesso era accaduto un mese prima per l’altra di via Mario Gioda 1, oggi via Giolitti) lui non fa una piega. Arriva presto come sempre, guadagna fra le macerie il suo ufficio, toglie i calcinacci dalla scrivania e si mette a correggere le bozze.
Neppure il confino interrompe la collaborazione di Leone Ginzburg. Da Pizzoli, in Abruzzo, dove è relegato con la moglie Natalia, le sue cartoline postali inondano la casa editrice. In una di queste fa sapere di non condividere il titolo della collana di narrativa contemporanea che sta per essere inaugurata. Non gli piace che si chiami “Biblioteca dello Struzzo” perché a lui fa pensare «a libri indigeribili che solo uno struzzo può divorare». E propone “Scrittori contemporanei”. Einaudi finisce per accontentarlo, la ribattezza “Narratori contemporanei” (ma molti anni dopo, nel 1970, chiamerà “Gli Struzzi” una collana tascabile prevalentemente letteraria). Quella collana debutta con “Paesi tuoi” di Cesare Pavese che, allegro, ha scritto all’editore accettando la pubblicazione del libro: «Gradirei che simbolicamente mi fosse versato in anticipo n. 1 pipa, onde fumarmela e preparare in serenità altri e più seducenti racconti».
Si aggiungono nuovi collaboratori. Compare Giaime Pintor, tenente del regio esercito, nipote di un generale. Diventa amico di Pavese che dissipa la diffidenza degli altri verso questo giovane brillante con la colpa di aver vinto i littoriali della cultura e dell’arte. Pintor per le sue incombenze militari si reca spesso in Francia e in Germania: torna con preziose informazioni culturali e nuovi libri. Fa parte degli einaudiani pure Carlo Muscetta. È lui che vara la “Universale Einaudi” di testi classici in cui appare l'”Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters che segna l’esordio, come traduttrice, di Fernanda Pivano. C’è poi una nuova scrittrice, Elsa Morante, che con “Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina” da lei stessa illustrate inaugura la collana “Libri per l’infanzia e per la gioventù” nella quale compaiono di lì a poco anche “Le Macchine” di Bruno Munari, il volume più spassoso e più nuovo per quei tempi. Con “Le occasioni” Eugenio Montale ha inaugurato la collezione “Poeti”. È stato il poeta a proporre il libro rifiutando la richiesta di Giulio Einaudi affinché scrivesse un saggio sulle tendenze «sane e deleterie» dei poeti contemporanei più rappresentativi. Alla lettera dell’editore, Montale risponde dopo sette mesi chiedendo: pubblicherebbe la raccolta delle mie poesie posteriori a “Ossi di seppia”? In mille copie da vendere a dieci lire l’una?
Poi, l’8 settembre 1943 blocca ogni attività. La lotta di resistenza sparpaglia tutti. Leone Ginzburg il 20 novembre viene arrestato a Roma e rinchiuso nel braccio tedesco di Regina Coeli dove muore il 5 febbraio dell’anno successivo a soli 34 anni. Anche il ventiquattrenne Giaime Pintor, il più giovane degli einaudiani, muore mentre cerca di unirsi ai gruppi della lotta partigiana. Giulio Einaudi si rifugia alcuni mesi in Svizzera e di là, già pensando al dopo, scrive e telefona per assicurarsi i diritti di scrittori come Hemingway, Sartre e altri. Quindi rientra in Italia unendosi alle brigate garibaldine in Val d’Aosta. Pa vese trova rifugio dai padri so maschi, nel collegio “Trevisio” di Casale Monferrato. Nell’ottobre 1944 Einaudi viene inviato in missione a Roma. Là incontra per la prima volta Palmiro Togliatti ed è l’inizio di una serie di contatti dai quali scaturirà, fra il 1947 e il 1951, la pubblicazione di “Lettere dal carcere” e dei “Quaderni” di Antonio Gramsci.

Se dopo la guerra c’e una casa editrice che non deve farsi perdonare alcun peccato, neppure veniale, di collusione con il passato regime questa è certamente la Einaudi. L’editore torinese si circonda di intellettuali e scrittori come Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Luciano Foa, Giulio Bollati, che si aggiungono a quelli che sono con lui dalla fondazione. L’Einaudi, all’avanguardia quando è stata fondata, continua ad esserlo ora che si respira libertà e democrazia. E lo dimostra subito nel settembre del 1945 cominciando a pubblicare «Il Politecnico» diretto da Elio Vittorini. Il periodico, modernissimo nella grafica di Albe Steiner, vuole rispondere al bisogno di una divulgazione popolare e immediata. E quanto questo sia reale appare dal suo iniziale successo. Ma lasciamo stare le polemiche, che si trascinano fino a oggi, sui reali motivi (politici?, economici?) che spingono Giulio Einaudi a interrompere le pubblicazioni due anni dopo. Fatto sta che la rivista Il Politecnico, diretta da Elio Vittorini, chiuderà dopo la polemica tra Togliatti e Vittorini, che si rifiuta di “suonare il piffero della rivoluzione”.

Con l’esperienza del “Politecnico”, forse anticipatrice anche di certe scelte che matureranno molti anni dopo nell’editoria periodica, Vittorini comincia una intensa collaborazione con la casa editrice dello Struzzo ideando una collana ormai mitica: “I gettoni”. È lì che lui, generoso scopritore di talenti, pubblica per un decennio le opere di nuovi scrittori come, fra gli altri, Carlo Cassola, Beppe Fenoglio, Mario Rigoni Stern, Anna Maria Ortese, Lalla Romano.
Cesare Pavese dal 1945 è tornato a lavorare freneticamente nella casa editrice, sempre più una colonna, sempre più brontolone e tormentato. Nei cinque anni che lo dividono dal suicidio, attuato poco dopo aver vinto il Premio Strega con “La bella estate”, riempie di sé gli uffici di via Biancamano 1 e della sede romana. Ricompare anche Felice Balbo, mente pensante della sinistra cristiana, l’autore de “L’uomo senza miti”, piccolo, serio, che parla, parla. È un eterno entusiasta, è sempre disponibile ad ascoltare chi porta proposte, trova sempre in un libro stimoli per nuove idee. E corre a parlarne con Pavese. Ma lui si stizzisce! «Che bisogno c’è di proposte? Siamo pieni di proposte fino al collo! Me ne infischio delle proposte! Non voglio idee!». Balbo non demorde. Va allora a discuterne con Giulio Einaudi, poi con chiunque altro. «Ma perché deve sempre parlare mentre gli altri lavorano», si lamenta Pavese. E non risparmia i suoi strali neppure a Massimo Mila, altra “storica” presenza alla Einaudi. «Tu, Mila, invece di lavorare sodo per il lauto stipendio che ti dona generosamente l’editore, passi le giornate a casa componendo musica», gli tira le orecchie in una lettera.
Anche Natalia Ginzburg, che in “Lessico famigliare” offre gustose cronache einaudiane, è entrata a far parte del gruppo. La sua traduzione de “La strada di Swann”, insieme con quella di Giorgio Caproni del “Tempo ritrovato”, realizza il progetto di pubblicare la “Recherche” di Proust.

Leggendarie le riunioni del mercoledì, dove si sceglievano i libri da pubblicare, o l’annuale incontro in valle d’Aosta per decidere la politica editoriale. Giulio Einaudi, autoritario, assolutista, perfezionista, ascoltava tutti, ma alla fine era lui che decideva. Alla casa editrice, dal ’45 nella storica sede di via Biancamano, si deve la scoperta e la pubblicazione di opere che hanno segnato da cultura del ‘900. Dalla traduzione della “Ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, alle opere di Bertolt Brecht, Jean Paul Sartre, Thomas Mann, Jorge Luis Borges, Robert Musil. Immenso il lavoro di divulgazione storica, culminata alla fine degli anni ’70 con “La storia d’Italia”.

Quando Giulio Einaudi e suoi più stretti collaboratori vanno a mangiare insieme alla Trattoria del Popolo ora è la Ginzburg che si diverte a fare un vecchio gioco. Comincia a inventare un racconto, poi passa la mano a Pavese che va avanti e a sua volta la passa allo «scoiattolo della penna», così chiama Italo Calvino, che ci mette dentro «tanti personaggi fantastici, uomini e donne bellissime, tutti ibernati», ha ricordato Bona Alterocca.
Piccole cronache di una casa editrice diventata ormai grande e importante. Come quelle degli impossibili appuntamenti di Carlo Levi che pubblica “Cristo si è fermato a Eboli” e altre sue opere. Dice che arriva nel pomeriggio. L’editore lo attende fiducioso insieme con i tecnici che hanno pronte le prove di copertina e coloro che si devono occupare della promozione del libro. Ma Levi compare tranquillo non prima delle nove e mezzo di sera. E comincia a discutere piacevolmente di tutt’altro, come se fosse in visita di cortesia. Ed è un tiratardi implacabile. Alle undici sono tutti sempre lì, esausti, affamati, a doverlo ascoltare. Piccole cronache d’una casa edi trice che con la produzione di qualità imbrocca non pochi best seller: “La ragazza di Bube” di Cassola; “Il giardino dei Finzi-Contini” di Bassani; “Marcovaldo, ovvero le stagioni in città” di Calvino. Poi c’è “La Storia” di Elsa Morante che esce nella collana economica “Gli Struzzi”. E sono 800 mila copie di vendita, ed è la prima volta in Italia che una novità appare negli economici.

Poi, dopo quegli anni Settanta, inizia il periodo di crisi. Nel dicembre ’83 a causa di dissesti finanziari arriverà per l’Einaudi l’amministrazione controllata, che avvierà la transizione verso una nuova struttura societaria nell’’87. Giulio Einaudi rimane presidente, ma la casa editrice passa sotto il controllo di Intracom; dal ’94 sarà Mondadori a controllare il 70% delle quote societarie.
Negli anni novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino e la crisi del comunismo internazionale, alcuni intellettuali, fra cui Ernesto Galli della Loggia, accendono una vivace polemica contro la casa editrice, accusata di non aver saputo seguire una poli tica editoriale autonoma dalla linea del Pci. Giulio Einaudi non risponde immediatamente, ma è molto addolorato da queste accuse, a cui replica in sua difesa Norberto Bobbio. Einaudi, non c’è dubbio, è stato un custode dei valori della Resistenza, un liberale progressista che dialogava con la sinistra e col Pci. Si è già detto della polemica con Palmiro Togliatti a proposito de “Il Politecnico”. Bisogna ricordare che Einaudi si rifiuta di pubblicare l’opera completa di Nietzsche. Ma la stessa casa editrice non avrà problemi a pubblicare il “Mussolini” di Renzo De Felice, uno studioso certo non di sinistra.

Giulio Einaudi muore il 5 aprile del 1999, a 87 anni, nella sua casa di campagna a Magliano Sabina, vicino Roma.

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